Le campane della domenica di Pasqua

Andrea

Maietti

Di questi giorni, sul far della notte, puntualmente riaffiora la mia Pasqua di oltre mezzo secolo fa. Torna con la vertigine della torre campanaria e un omino abbrancato con una mano alla colonnetta delle bifore, con l’altra tutto preso a sbatacchiare la berlòca (tavoletta di legno con batacchio di ferro), all’angelus del mezzodì. Nei cortili delle povere case che si stringevano intorno alla chiesa come pecore intorno al pastore, noi ragazzi lasciavamo il pallone, e ci assiepavamo contro i muri, ogni volta incantati. Finché ci chiamavano le madri, e più ancora il profumo della polenta appena versata dal paiolo a farsi irresistibile cupola d’oro sul tagliere. I brividi della chiesa spoglia nella messa ‘secca’ del venerdì santo. La fila ai due confessionali della sacrestia: quello del parroco e quello del coadiutore. E il parroco (don Rissulin) che usciva a ricciolo infuriato dal suo confessionale, perché i penitenti preferivano fare coda a quello tanto meno severo del coadiutore. La sera del venerdì la processione con le stazioni sceniche sotto i portoni, e poi in chiesa il momento più atteso da noi ragazzi. Quando, nella lettura della Passione, il prete raschiava ed alzava la voce: "Ecco arrivare Giuda, uno dei dodici, e con lui una grande folla con spade e bastoni…". I bastoni, di ogni forma e dimensione, ce li eravamo portati da casa, nascosti sotto la camicia. Alla parola ‘bastoni’ il prete s’interrompeva e volgeva il capo verso la navata gremita con un rapido cenno di sì. Allora i bastoni crepitavano sugli inginocchiatoi in un fracasso assordante. Curiosamente nessuno di noi pensava di bastonare Giuda. Come avessimo letto Primo Mazzolari: "Giuda: forse la mattina di Pasqua al primo albeggiare, quando stormiscono i rami di tutte le piante per salutare il mattino che sorge, anche il suo povero corpo avrà sentito il fremito della Resurrezione". Ci voleva ben più di un cenno perché la smettessimo. Le campane della domenica, più che la Resurrezione, annunciavano che anche la tavola più miseranda avrebbe vissuto l’acquolina di un uovo sodo.