DARIO CRIPPA
Cronaca

L’incredibile storia d’amore della schiava liberata che fece costruire un sarcofago al marito: la scoperta a Monza

Ritrovato durante i lavori di ristrutturazione in un vecchio edificio è stato appoggiato ormai da anni nel cortile del liceo classico Zucchi. Ogni giorno ci passano accanto gli studenti e la preside l’ha protetto

Il sarcofago è tuttora conservato nel cortile del liceo classico Zucchi

Il sarcofago è tuttora conservato nel cortile del liceo classico Zucchi

MONZA – Una grande storia d’amore, sepolta sotto i millenni del tempo. Per portarla alla luce, bisogna grattare però sotto la scorza di antiche pietre con lo scalpello del cacciatore di epigrafi e ovviamente lavorare un po’ di fantasia. Ma neppure troppa, provando a immaginare che ogni volta che qualcuno ci passa davanti dalla pietra potrebbe uscire come un sospiro dandole all’improvviso voce e facendo rivivere il grande amore di una donna per suo marito. Un amore tanto forte da superare il tempo.

Entrando in un ex seminario nel cuore di Monza, ci si può imbattere in un pezzo di storia semisconosciuta. Decine di ragazzi, negli anni, ci sono transitati di fianco degnandolo al massimo di un’occhiata distratta. Qualcuno, goliardicamente, ha provato forse ad arrampicarsi per entrarci dentro, prima che venisse circondato da un nastro bicolore simile a quelli per delimitare i lavori stradali. Perché entrando in quel vecchio seminario, oggi sede del liceo classico Zucchi e volgendo lo sguardo sul lato destro del suo cortile, ci si imbatte in un sarcofago. Vuoto, ovviamente, con il coperchio appoggiato al suo fianco.

Lì dentro, un tempo, riposavano i corpi di due esseri umani vissuti secoli fa. Solo gli esperti – una trentina di anni fa ci aveva dedicato parte dei suoi studi il professore Fabio Resnati, docente con specializzazione in Epigrafia – possono spiegare che si tratta di una cassa di sarcofago in serizzo (un tipo di roccia), con ampia vasca ellissoidale, rinvenuta nel 1973 presso il Caffè Roma a Vimercate e quindi trasportato in villa Gussi prima fino a quando la Soprintendenza, per ragioni dimenticate, non decise di trasferirlo nel portico esterno di quello che è oggi un liceo… E “ivi conservarlo“, come si legge sui vecchi documenti. L’attuale dirigente del liceo, la professoressa Rosalia Natalizi Baldi, che si è diplomata proprio allo Zucchi e laureata in Lettere Classiche con specializzazione in Archeologia, ha ovviamente un occhio e una sensibilità allenati e non a caso appena insediata nel suo nuovo ruolo, sette anni fa, si era interessata del curioso manufatto. Aveva provato a raccogliere informazioni e imbastire un progetto per poterlo restituire alla città di Vimercate o quantomeno per valorizzarlo meglio rendendolo fruibile a visitatori e studiosi.

Non se ne è fatto nulla.

E allora a tenteremo noi di raccontare la sua storia. Come si diceva, il sarcofago – di epoca romana, databile all’incirca al secondo secolo dopo Cristo – era venuto alla luce durante alcuni lavori di ristrutturazione in quello che era il centro cittadino romano più importante nei pressi di Monza, Vicus Mercati, l’odierna Vimercate. Un’iscrizione a lettere ancora leggibili e ben conservate racconta che a far realizzare quel pesante sarcofago fu una donna e che questa donna si chiamava Eutichia.

Eutichia aveva deciso di dedicare questo sarcofago a se stessa ma anche all’amato marito Idomeneo e non era cosa da poco, questa, perché dimostrava che il loro amore era importante, perché solo un grande amore avrebbe potuto giustificare un’opera così imponente e probabilmente anche costosa.

Il testo è abbastanza chiaro, con lettere incise poco profondamente eppure molto nitide. E recita:

“Eutichia Faventina hoc (…) esuleum

Viva fecit sibi et L(ucio) Domineo Saurioni

Coniugi sui carissimo qui vixit

annos LIIII mens(es) VII dies XXIII“.

Riempiendo alcune piccole lacune, si può tradurre facilmente con “Eutichia Faventina fece costruire quando era ancora viva questo mausoleo per se stessa e per Lucio Domineo Scaurioni (che è poi Idomeneo, secondo la lectio più invalsa), suo carissimo marito che visse cinquantaquattro anni, sette mesi e ventiquattro giorni”. Un dato quest’ultimo per nulla superfluo o inutilmente pedante, dato che l’accuratezza nel precisare l’età del defunto era una caratteristica basilare nelle iscrizioni funerarie dell’epoca.

Ed era tipico per i Romani scrivere esattamente anni, mesi e giorni vissuti. Un dato che dimostrava certamente l’attaccamento alla vita...

Da queste poche parole possiamo anche ricostruire che Eutichia, come indica il suo nome, era una “liberta”, termine che indicava gli schiavi affrancati, condizione all’epoca che non precludeva la possibilità di una scalata sociale e che spesso poteva indicare persone che si erano inserite perfettamente nella società romana. Nella fattispecie, fa notare il professor Resnati, i due cognomina della donna (Eutichia e Faventina) erano utilizzati da liberti in Cisalpina, nome con il quale i Romani indicavano il territorio dell’Italia Settentrionale, coincidente grossomodo con la Pianura Padana.

Con il primo nome che potrebbe essere di origine greca, mentre il secondo sarebbe invece un nome geografico. E dalla Cisalpina proveniva anche il marito, come indicherebbe il suo nome gentilizio. Un cognomen un po’ incerto, dato il supporto in serizzo e lo stato di conservazione, ma anche in questo caso ritenuto di chiara origine libertina. Possiamo dunque immaginare Idomeneo come un romano di seconda generazione, un ex barbaro che aveva fatto fortuna e si era stabilito col suo piccolo patrimonio dalle parti di Monza, mentre sua moglie era magari un’ex schiava greca che aveva sposato e forse lui stesso affrancato. Ma dalla quale evidentemente non aveva avuto figli per i quali non era stato infatti previsto un posto nella tomba di famiglia. Di più, non è possibile azzardare. Solo che questa donna amava moltissimo suo marito che l’aveva resa libera e con la quale aveva condiviso il suo patrimonio… e una nuova fortuna sociale oltre che economica.