
La stazione ferroviaria di Monza
Monza, 31 luglio 2018 – STAZIONE BY NIGHT
Per scendere da corso Milano alla stazione ferroviaria bisogna percorrere una larga scalinata. Si può fare da due punti (il terzo è una scala un po' ripida): il selciato è parecchio rovinato, molte mattonelle sono saltate e bisogna passare di fianco a nutriti gruppi di extracomunitari, in piedi o acciambellati sulle panchine. Africani e nordafricani
per lo più.
Passare da qui a parecchi fa paura, specie quando cala la sera. Le volute di fumo di cannabis sono fitte. Da circa un anno c’è una postazione fissa della polizia locale, di recente hanno anche prolungato i suoi orari fino a sera, alle 22. Ma alla domenica no. Di domenica non c’è nessuno sin dalle 20; tra ferie e festivi, trovare qualcuno disposto a farsi la serata è quasi impossibile, dicono dal Municipio. E allora quando fa buio nessuno transita più dalla scalinata principale.
Appena ci provo, una mano si allunga sulla mia spalla: c’è un ragazzo alto e dalla camminata un po’ vacillante, sorriso a 32 denti, anche se un po’ anneriti. È algerino e mi apostrofa: «Ciao zio». Se non gli rispondi subito, riparte alla carica: «Ciao zio!» a voce più alta. E poi passa subito al nocciolo della questione, senza fronzoli: «Fumo o coca?». Quando neghi di essere interessato, ti guarda diffidente. «E allora cosa ci fai qui?» sembra domandarti. E decine di occhi iniziano a seguire ogni tuo movimento. Soprattutto i tre uomini, nordafricani, sdraiati in mezzo a un’aiuola. Il bivacco non sembra casuale e loro danno l’impressione di comandare: ogni tanto da loro arriva un africano, più giovane. Si dicono o scambiano qualcosa, poi i giovani neri ripartono, chissà per dove.
La stazione “by night” è questa. Nel fine settimana soprattutto. Provo a sedermi su una panchina: e assisto a una strana scena. Arriva un uomo, cinquant’anni e rotti, italiano, bicicletta a mano. Si avvicina a una panchina dove trovano posto cinque o sei africani: neri come la pece, giovani, fisico ben tornito, cappellino, uno stereo a diffondere musica hip hop, uno accenna qualche passo di danza. L’italiano con la bicicletta si avvicina, ha più del doppio dei loro anni, e inizia a parlare sottovoce, fa’ dei gesti. Intavola una trattativa. Anche se non è chiaro su cosa: droga? O forse sesso? Gli immigrati lo guardano storto, un po’ diffidenti. Tengono d’occhio anche il sottoscritto, scomodo testimone. Uno del gruppo si allontana. L’italiano continua a restare lì, in attesa. Fino a quando l’immigrato che se n’era andato, forse un capo, torna e lo affronta a muso duro, gli dice chiaramente di andarsene, lo scaccia. Sempre tenendomi d'occhio. Trattativa fallita.
Scendo in stazione: anche qui ci sono alcuni giovani africani. Fanno la spola in bicicletta dentro la stazione. Anche di giorno, in mezzo ai passeggeri. Quando raggiungi il primo binario sembra di piombare in mezzo ai “ragazzi dello zoo di Berlino”, quelli del libro-film degli anni Settanta. Nordafricani, africani, sudamericani. Vicini ma rigorosamente a gruppi separati. In mezzo a loro, ci sono gli italiani: uomini e donne. Parecchi danno l’impressione di essere tossicodipendenti. Capelli fosforescenti, ragazze magrissime e con i denti neri e sporgenti, una indossa uno strano abitino su cui spicca, all’altezza del petto, una carta da gioco, un “sette di quadri”. Un trans continua a ridere. Quasi tutti fumano pesante e bevono birra e superalcolici. Stop, è ora di andare a nanna.
STAZIONE BY NIGHT.
Interno giorno. Diana Serna è una donna tosta. Peruviana. Grande lavoratrice, da vent’anni apre le saracinesche di un locale simbolo, il Caffè Vecchia Stazione, bar a strapiombo sulla stazione ferroviaria. Il racconto di cosa accada e cosa significhi avere a che fare tutti giorni con la stazione può partire bene da lei. «Qui si vive come in trincea. Gli africani non fanno niente e bivaccano dalla mattina alla sera, i nordafricani e gli italiani spacciano, i sudamericani bevono e si ubriacano. E noi ci ritroviamo in mezzo, alla mattina i cocci di bottiglia sono dappertutto. E per noi che siamo tre donne ad alternarci al lavoro ogni giorno dalle 5.30 di mattino fino alle 10 di sera, c’è da avere paura». E spiega: «Mi minacciano, mi insultano. Ti chiedono soldi e si siedono ai tavolini fuori dal bar a fare le loro trattative con i clienti. E guai se dici qualcosa: rovesciano i tavoli e ti buttano tutto all’aria». Poi riflette: «Il problema non sono gli stranieri in quanto tali, anche io sono una straniera che lavora e paga le tasse. Il problema sono quegli stranieri che stanno in stazione». Poi prende fiato: «La tristezza è vedere cosa accade: ragazzini italiani di 15 o 16 anni, ben vestiti, puliti, che vengono qui tutti i giorni a comprarsi le canne da quegli spacciatori. Mi fanno pena, penso alle loro famiglie». La vita in stazione è sempre stata così? «Negli ultimi 4-5 anni è peggiorata. Cosa faccio? Devo chiudere il bar per paura?».
Qualcuno che ha chiuso o se ne è andato c’è. Da meno di un mese il concessionario Jaguar che si apriva in corso Milano si è trasferito. Al suo posto, un negozio di scarpe, chi ci lavora scuote il capo sconsolato. Dei grattacapi “ereditati” non ha alcuna voglia di parlare. Fra i commercianti storici superstiti c’è chi parla, a patto che sia rispettato l’anonimato: «Sudamericani ubriachi, spacciatori africani... al mattino troviamo i resti di un campo di battaglia, eppure il sindaco ha detto che ha le mani legate». Di notte però hanno chiuso la stazione. «Non basta, la soluzione sarebbe chiudere il piazzale della stazione quando arriva la sera, metterci una staccionata». Intanto il Comune ha messo un presidio fisso fino alle 22 della polizia locale.
Dal casotto di Autoguidovie e Info point turistico di Monza allargano le braccia. I vigili ci sono, ma le tre ragazze che si alternano allo sportello hanno sul bancone il numero della polizia locale sempre a portata. Può sembrare grottesco, dato che la camionetta dei vigili dista appena una decina di metri. Eppure, prima di arrischiarsi a mettere il naso fuori dal loro ufficio, le ragazze ci pensano su due volte. «E quando partono le sassaiole o le risse – e qui accade spesso – non possiamo fare altro che chiedere aiuto. I nostri vetri periodicamente ne fanno le spese. Il presidio dei vigili fa piacere ma non è decisivo. E il retro della stazione, quello che si affaccia su piazza Castello, è terra di nessuno. Mi faccio venire a prendere in macchina quando devo rincasare, ma se devo prendere l’autobus tiro fino al Binario 7 pur di non passare dalla stazione. L’altro giorno ero di corsa, e sono passata di lì: prima un ragazzo ha tentato di fermarmi con la scusa che avevo perso una banconota da 50 euro, poi un altro mi ha avvicinato offrendomi droga: in pieno giorno».
Dentro la stazione non va meglio. All’edicola, Ruggero Riva racconta: «Da quando hanno chiuso la stazione di notte almeno non troviamo più gente accampata a dormire davanti alla nostra saracinesca quando al mattino presto veniamo ad aprire». Gli fa eco una commessa: «Chiazze di sangue, furti davanti ai nostri occhi, i bagni qui dietro li hanno appena rifatti ma sono già inutilizzabili, fra puzza e danni. E poi troviamo le siringhe per terra: la gente va in fondo al al binario 1 a bucarsi o a fumare».
OLTRE IL SOTTOPASSO
Trovato il coraggio di imboccare il sottopasso e sbucare sull’altro lato di corso Milano, regnano rabbia e sconforto e la rabbia. «Uomini e donne si mettono a far pipì qui davanti a tutti. E al mattino mi tocca azionare l’idropulitrice per ripulire il
marciapiede. Chi ha casa in corso Milano cerca di vendere, al loro posto arrivano gli uffici... almeno quelli alla sera possono chiudere e tornare a casa. E poi comincia la musica, nel fine settimana soprattutto, sdraiati per terra. E spaccio a cielo aperto. E quando periodicamente arrestano un pusher, nel giro di 10 minuti ce n’è già un altro al suo posto».
VIAGGIO SULL'AUTOBUS DOVE NESSUNO PAGA
Il capolinea è dietro alla stazione. Piazza Castello, da qui partono le linee per mezza Brianza e l’hinterland milanese. Compagnie di ragazzi bivaccano fra ingresso della stazione e autobus in attesa di partire. Giovani, bottiglie di birra alla mano, sudamericani e africani vestiti come rapper o personaggi dei telefilm american style. Ondeggiano, sembrano sempre in attesa di qualcosa. E ogni tanto salgono sugli autobus. Gli autisti hanno imparato a non guardarli. A non far caso al fatto che nessuno o quasi è in possesso di biglietto. Sospira uno dei tanti autisti che attendono il loro turno di partire: «Lavoro qui da più di 10 anni, le linee e gli autobus sono puliti e funzionano, ma...». La paga? «No, Autoguidovie paga magari poco (5 euro per lo straordinario della domenica, ndr), ma è puntuale. Il problema sono i passeggeri, quasi nessuno paga, specie di sera e nei fine settimana. Ci si salva in settimana, quando arrivano i pendolari e gli studenti con i loro abbonamenti». I controlli? «Si tende a non farli. Ogni tanto arriva qualche controllore, ma si rischiano guai. Gli autisti pensano a guidare: non puoi trascorrere il tuo turno a litigare, non abbiamo neppure una cabina separata dal resto dell’autobus a proteggerci, si rischia troppo». La cronaca racconta che ogni tanto qualche autista è stato picchiato. E che in piazza Castello soprattutto, di sera non vorrebbe lavorarci nessuno.... «Qualche giorno fa un mio collega si è preso un pugno perché ha provato a chiedere il biglietto a un passeggero. Poco fa, dei 20 passeggeri che ho trasportato solo in 2 hanno pagato».
Facciamo una prova: tratta Monza-Cologno Monzese e ritorno. Non c’è traffico, dalle 19.20 alle 19.55, andata e ritorno, si fila senza intoppi. All’andata, su 50 passeggeri pagano appena in 5. Solo italiani, anche se pure fra loro in parecchi si adeguano all’andazzo generale. Al ritorno, ore 19.46, vediamo il primo straniero che timbra un biglietto: si tratta di un nordafricano, con lui ci sono moglie e figlioletto. Poco dopo, anche un altro ragazzino, forse assistendo alla scena e scambiandomi per un controllore, si affretta pure lui a pagare. Gli altri, nisba.
E la sicurezza? «Lo so - ribadisce l’autista -, il messaggio implicito è di far finta di niente. Non chiedo il biglietto mai, a casa mi aspettano moglie e figli». Intanto, parecchi passeggeri salgono e scendono dal retro del bus, quello senza obliteratrice, quello in cui non si passa davanti all’autista. Ma a tanti non frega niente: salgono serenamente dalla porta davanti all’autista, le cuffie nelle orecchie o il telefono cellulare in mano, come se fossero impegnati in una conversazione importantissima... e vanno a sedersi. Anche stavolta, il viaggio è gratis. Offre la ditta.