Quando la peste infuriava sulla Brianza

Partita da Seregno, dove venne tenuta a lungo nascosta, si propagò a tutto il contado fino a Milano facendo migliaia di vittime

La Processione del Santo Chiodo

La Processione del Santo Chiodo

Monza, 8 marzo 2020 - Si alzano quasi all’improvviso, in prossimità di chiese o crocevia. Alte, solenni, rese riconoscibili anche a distanza da elementi come sfere, pigne, capitelli. E, ovviamente, con una croce a sormontarle. Sono colonne votive, su cui sovente sovente si può ancora leggere qualche frase istoriata in latino. Le fecero costruire – almeno molte di esse – dopo il 1576. Dopo la grande pestilenza che seminò lutti nell’Italia settentrionale. Anche in Brianza. Ne parlano diverse fonti, dai biografi di San Carlo Borromeo, l’Arcivescovo di Milano che molto si spese per quello che all’epoca si rivelò una dramma di proporzioni immani, allo storico Ignazio Cantù con le sue “Le vicende della Brianza e de’ paesi circonvicini”. Anche Alessandro Manzoni vi fa cenno nei Promessi Sposi.

La pestilenza del 1576 si dice fosse stata portata da qualche pellegrino diretto al Giubileo di Roma, dai soldati di ventura sempre in movimento in quegli anni o addirittura – secondo alcuni - da merci infette provenienti dall’Ungheria. Passando da Trento, Verona e Mantova, la pestilenza aveva colpito per prime Trezzo, Vaprio d’Adda e Vimercate sino a esplodere in tutta la sua tragicità nel luglio 1576. Racconta Ignazio Cantù che a portarla in Brianza fu un certo Moretto, un cardatore di lana che aveva contratto il morbo a Milano “nel borgo degli Ortolani ove infieriva, e diffondendola subito a Seregno, sua patria, donde si stese alle terre vicine”. A Seregno il contagio all’inizio fu tenuto nascosto. “Gli abitanti di Seregno, prevedendo i danni che sarebbero tornati al loro commercio, quando si fosse sparsa la voce che erano tocchi dal male”, benché ne morissero a decine ogni giorno, “a lungo lo tennero nascosto”. Sino a quando finalmente i governanti dell’epoca dovettero prendere drastici provvedimenti. “Dovettero scoprirsi, chiudere molte case del borgo e far capanne per riporvi gli ammalati".

La notizia arrivò subito a Milano. Anche i magistrati di Milano, però, che erano già alle prese con il contagio nella propria città, non fecero molto. Anzi, pare che in parecchi si diedero alla fuga. Intanto la peste imperversava in Brianza. Ci sono documenti che raccontano come una legge avesse vietato agli abitanti di Lentate, Seregno, Lurago, Vedano, Meda e Varedo di uscire dai propri paesi, e ordinava che fossero piantati intorno a queste terre dei segnali a delimitare i confini da non oltrepassare. Tutto inutile, però. Almeno un centinaio di abitati furono coinvolti, fra cui quelli di Caponago, Carate, Cantù, Canonica del Lambro, Annone, Garlate, Olginate, Barzanò. È in questo cataclisma che emerge la figura dell’Arcivescovo di Milano, Carlo Borromeo. Il quale, “non ponendo limiti alla sua carità precipitava colà donde gli altri fuggivano, entrava negli ospitali degli appestati, gli incoraggiava, amministrava loro i sacramenti, lodava i frati che generosamente ponevano la loro vita per la salvezza de’ propri fratelli”. Fu lui a p rendere la direzione dell’assistenza. Entrando negli ospitali, nelle case, nelle tende infette di tutta la Diocesi a somministrare l’eucarestia e l’unzione ai fedeli, sapeva benissimo di poter contrarre il morbo e lasciò un testamento nel quale nominava come erede universale l’Ospedale Maggiore di Milano. Per precauzione, comunque, le monete delle elemosine che raccoglieva nel corso delle sue visite caritatevoli venivano lasciate in un vaso pieno di aceto, mentre un domestico lo accompagnava con un bastone che serviva va tenere a distanza gli ammalati in modo che non lo toccassero. Il religioso incoraggiava ovviamente gli altri sacerdoti a seguire il suo esempio, anche se si rendeva conto di come il contagio facesse le proprie vittime soprattutto fra i soccorritori. Provò a mandare da Milano persone zelanti che potessero spingersi in Brianza, anche se non sempre con fortuna.

Le cronache menzionano il caso di tale Francesco Bernardino Crivelli, “uomo di indomabile carità”. Poiché però “non fu mai penuria di maligni e d’ignoranti, così non mancarono taluni che accusarono il Crivelli d’aver propagata la crescente pestilenza, onde egli stimò miglior partito abbandonare i colli della Brianza”. L’arcivescovo organizzò anche le “preghiere continue”. Sette volte durante il giorno e sette durante la notte, le campane invitavano il popolo alla preghiera e tutti, ovunque si trovassero, dovevano recitare litanie, salmi e invocare la misericordia divina. Carlo Borromeo era mosso anche da ragioni igieniche. Vietando l’assembramento di persone all’interno di spazi chiusi era necessario organizzare messe in autentiche “chiese da campo”. E fu una volta terminata l’epidemia e smantellati gli altari che si decise di erigere al loro posto delle colonne votive, come atto di devozione e ringraziamento da parte dei sopravvissuti. A Brugherio sono ancora oggi visibili in piazza Roma, al lato della chiesa di San Bartolomeo; su viale Lombardia, non distante dal cimitero vecchio; al bivio della Torazza e a San Damiano. Una si trova anche in piazza Duomo, a Monza, da sempre nota come “la Crocetta”.

E c’è una processione sacra, che si ripete ogni anno alla terza settimana di settembre, che prende spunto dalla pestilenza. Si tratta della processione del Santo Chiodo. Nel 1576 San Carlo Borromeo portò in processione per le strade di una Milano flagellata dalla peste la reliquia con il chiodo con cui era stato crocefisso Gesù. A ricordo di tale evento, a Monza la Corona Ferrea, che la tradizione cattolica considera realizzata con uno dei chiodi utilizzati per la crocefissione di Gesù, viene inserita in una croce reliquario che, con l’Arciprete del Duomo scortato dagli Alabardieri, attraversa le vie della città in processione.