
di Stefania Totaro
"La reiterazione delle iniziative giudiziarie rileva quale molestia in quanto del tutto strumentale ad una finalità persecutoria, manifestata dall’imputato anche durante il processo, sia mediante le sue dichiarazioni, sia con la proposizione di altre controversie giudiziarie instaurate successivamente all’avvio del processo e anche contestuali al periodo di rinvio chiesto dalle parti per valutare eventuali possibilità di raggiungere un accordo". Per questi motivi il giudice monocratico del Tribunale di Monza Emanuele Mancini ha condannato per stalking giudiziario nei confronti di un suo cliente a 4 anni di reclusione e all’interdizione legale e dai pubblici uffici per la durata di 5 anni l’avvocato Davide Palmieri, legale 56enne del Foro di Monza, accusato di atti persecutori capaci di causare gravi problemi psicologici e di mutamento delle abitudini alle vittime di questo comportamento. L’avvocato, già sospeso dalla professione per un breve periodo dall’Ordine degli avvocati di Monza dopo alcune condanne penali per falso, appropriazione indebita e calunnia per la stessa vicenda (alcune già diventate definitive) e ora sottoposto a un anno di sospensione disposta in via cautelare dalla magistratura monzese, è stato condannato dal giudice anche al risarcimento dei danni (con una provvisionale complessiva di 30mila euro) all’imprenditore bergamasco Antonio Unito e ai suoi familiari.
A quanto emerso dalle indagini coordinate dalla pm monzese Michela Versini, l’avvocato avrebbe intentato oltre 200 cause civili e penali nei confronti dell’ex cliente da quando, nel 2011, questi avrebbe deciso di rinunciare al mandato del legale. "L’imputato si è difeso sostenendo che sono le parti offese a porre nei suoi confronti un’azione di persecuzione giudiziaria, resistendo senza ragione alle proprie legittime istanze, ovvero ricorrendo a false dichiarazioni nonché accusandolo ingiustamente di fatti non veri, così costringendolo a proporre, a sua volta, diverse azioni volte a riaffermare il vero e il proprio onore - scrive il giudice nella motivazione -. In questo senso particolarmente significativa è l’affermazione secondo cui le stesse condanne emesse nei suoi confronti per lite temeraria sarebbero per lui ‘un vanto’ in quanto patite per la sua condotta rivolta a ‘ripristinare una questione di giustizia’. Tale ultima finalità, seppur riferita dall’imputato con riguardo ad alcune delle proprie istanze volte alla ricusazione di giudici che già si erano pronunciati in precedenti contenziosi, coglie il vero senso delll’intera condotta perpetrata negli anni dall’imputato". Un aspetto che, secondo il giudice "può probabilmente estendersi in analoga misura alle parti civili nel senso che è emerso che entrambe le parti agiscono convinti delle proprie ragioni e per l’affermazione del relativo diritto, non accettando compromessi né di poter ricevere una risposta negativa alle proprie istanze di tutela".
"Un conflitto che pare non avere mai fine", lo dipinge il giudice, secondo cui però l’oggetto del processo "si rinviene proprio in tale condotta dell’imputato" posta in essere per "raggiungere il fine del ripristino della giustizia, ma determinando l’ulteriore abuso del processo". Il giudice conclude che a rilevare "non è soltanto la mera instaurazione di procedimenti giudiziari, bensì la loro moltiplicazione e duplicazione, la mancata pertinenza del linguaggio e gli ulteriori caratteri indicati per qualificare rilevante la condotta contestata all’imputato nonché l’evento offensivo della libertà individuale e morale tutelato dalla norma in esame".