MARCO GALVANI
Cronaca

Massimo Del Bene, il chirurgo brianzolo in Etiopia tra gli ex bimbi soldato: “Vivono in attesa che qualcuno curi le ferite di guerra"

Monza, il luminare della chirurgia plastica e ricostruttiva racconta la sua prima missione con la Croce Rossa di Ginevra dopo la pensione da primario all’Irccs San Gerardo

La sala operatoria in Etiopia e il dott. Del Bene

La sala operatoria in Etiopia e il dott. Del Bene

La guerra del Tigrè, in Etiopia, è finita da un paio d’anni. Ma la zona della città di Mekele non è ancora sicura. “Tranquilla, ma non stabile“. Livello H2 nella scala con cui la Croce Rossa internazionale classifica i luoghi delle missioni. Poi resta solo l’H3, lo scenario di guerra. Il conflitto è finito, ma per le “strade“ polverose di Mekele non puoi girare da solo. "Se vuoi andare da qualsiasi parte devi essere scortato da una camionetta con uomini armati", racconta Massimo Del Bene. Luminare della chirurgia plastica e ricostruttiva, è alla sua prima missione con la Croce Rossa di Ginevra dopo la pensione da primario all’Irccs San Gerardo di Monza. Tre settimane ai confini del mondo e della civiltà. Destinazione: la sub delegazione a Mekele. Per operare i sopravvissuti della guerra civile. C’è un ospedale militare popolato da 1.500 ragazzi feriti. Ex bambini soldato. Da due anni sono lì in attesa di qualcuno che li operi. È come un campo profughi. La loro vita si trascina in quella bassa scatola di cemento.

Non c’è niente. Un ospedale senza servizi igienici. Le vacche che pascolano in cortile e fanno i giardinieri nelle aiuole bruciate dal sole. La cucina è un capannone dove il cibo è tenuto dentro a barili con un coperchio di fortuna, quando c’è. E non ci sono camere. Lungo i corridoi dell’edificio ci sono file di tende di fortuna, fatte con lenzuola e coperte. Sotto, un letto. Un paziente. Una vita. E due occhi. Sguardi profondi. "Gli occhi scuri di quei ragazzi fissano la tua pelle “bianca” e il rosso della croce sulla jeep e sul camice – racconta Del Bene –. Noi siamo i colori che possono cambiargli la vita". 

Ha operato "tantissimo". Ferite di ogni tipo. Alle gambe, alle braccia, al volto. Ferite di guerra. Provocate da bombe e proiettili. Ma "lavori in condizioni sanitarie al limite, a volte mi ritrovavo le mosche sui guanti mentre operavo". Lui che continua ad avere in testa il progetto di un World Children Hospital in Italia, un ospedale per bambini vittime della guerra. Perché "in un posto come Mekele certi casi non li puoi operare. Ragazzi condannati alla disabilità a vita perché comunque da quei territori non possono andar via".

Aspettano. "Sono come dei rifiuti su una spiaggia dopo la tempesta – l’amarezza del chirurgo –. Nessuno vuole farsene carico". Ormai la tempesta, la guerra, è passata. Sono rimasti loro, gli ex bambini soldato. E rimangono buttati lì. "Noi facciamo il possibile". Alle 8 già in sala operatoria, "cerchi di massimizzare il tempo, almeno fino alle 5 del pomeriggio". Prima, però, c’è la visita in ambulatorio. "Una porta sgangherata con i vetri oscurati da una mano di vernice marrone appena sufficiente a impedire che gli “occhi scuri“ possano vedere cosa succede dentro – il diario di Del Bene –. Noi medici visitiamo e cerchiamo di spiegare. I traduttori si affannano per rendere comprensibile la diagnosi. Che spesso è una sentenza senza appello. Operabile oppure non più operabile. E quindi una condanna a una vita condizionata da stampelle o sedia a rotelle".

Così quella porta sgangherata diventa il simbolo della speranza: "La fine della “prigionia“ in quell’ospedale, la guarigione e il ritorno alla vita. Oppure il ritorno nelle corsie, ma continuando ad aspettare che qualcun altro possa tornare ad aprirgli quella porta sgangherata e cambiargli il destino". Ecco, alla fine di ogni giornata, quando i medici escono dall’ambulatorio camminano in mezzo ai "ragazzi adagiati sulle sedie a rotelle o in piedi, incerti, sulle stampelle. Cerchi di evitare i loro sguardi, perché forse quello è il momento più duro da sopportare" di una missione umanitaria a tempo determinato.