FABIO LUONGO
Cronaca

Lissone, lo scrittore Shady Hamadi: la Siria, i profughi e la guerra

"L'unica via di uscita è il sostegno alla società civile"

Shady Hamadi

Lissone, 14 ottobre 2015 -  Indignazione e volontà di agire, sull'onda di quello sdegno, assieme agli altri per cambiare le cose, assumendosi una maggiore responsabilità, individuale e collettiva. Come già per Sant'Agostino, anche per Shady Hamadi la speranza ha due figli, la rabbia e il coraggio: la rabbia nel vedere come vanno le cose oggi e da anni in Siria e il coraggio di vedere come potrebbero andare. E' questo il «messaggio nella bottiglia» affidato ai lissonesi e ai brianzoli dallo scrittore italo-siriano, blogger, opinionista e attivista per i diritti umani, nell'incontro che si è svolto a Lissone nell'ambito del Festival del Libro «Libritudine», dove Hamadi è venuto a presentare il suo «La felicità araba. Storia della mia famiglia e della rivoluzione siriana», volume pubblicato da Add Editore con il patrocinio di Amnesty International, una prefazione del Premio Nobel Dario Fo e un contributo di Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia. Un messaggio che parla della necessità di indignarsi, tutti assieme, e tutti assieme agire, in modo concreto, per aiutare a cambiare la realtà che ci circonda e la situazione in Siria. Prima di tutto dando una mano ai profughi che scappano dagli orrori della guerra, da un regime sanguinario e da un panorama di rovine, donando cibo e abiti usati alle associazioni che soccorrono queste persone, «regalando le nostre scarpe vecchie a un profugo, invece di buttarle via». Ma ancor di più sostenendo, come società civile e come istituzioni, la richiesta di diritti e libertà dei siriani, ad esempio con un gesto simbolico sì ma dal grande significato come una mozione del consiglio comunale della città. Prendendo le mosse dalla vicenda di suo padre, per trent'anni esiliato politico in quanto oppositore del regime di Damasco, Shady Hamadi ha allargato il discorso a quel che sta avvenendo ora in Siria, alle diverse parti coinvolte e ai tanti interessi in campo; ha raccontato della società civile siriana desiderosa di libertà, ma presa in mezzo tra i contendenti armati, e del dramma dei profughi. Invitando a smuovere le coscienze e a mobilitarsi. In procinto di rientrare a Beirut, in Libano, dove attualmente abita, il giovane scrittore nato a Milano ha provato a far capire che nella Siria martoriata da decenni da un regime dittatoriale e negli ultimi anni anche da una violentissima guerra resta ancora viva nella società, tra i giovani, la speranza in un futuro diverso. Come è nato il libro? Cosa racconta? «Sono stato spinto a scrivere questo libro dalla volontà di dare voce a un dramma, che è quello del popolo siriano, a partire da una storia concreta, la mia personale e quella della mia famiglia, che è poi quella di migliaia di altri. Il libro vuol essere uno strumento per la creazione di una indignazione di massa di fronte a quello che avviene in Siria. Perché è anche questo il ruolo dello scrittore: essere tra la gente per poi documentare e testimoniare, in questo caso, tramite la storia mia e della mia famiglia, quel che la Siria è ed era». Come si è arrivati alla situazione attuale? «Abbiamo una Siria che è il risultato dell'attendismo della comunità internazionale, che ha prodotto la radicalizzazione del conflitto a sfondo confessionale e la polverizzazione della società. Sopra questi elementi c'è il gioco delle potenze internazionali, per le loro singole agende politiche. E la rivoluzione siriana è diventata orfana, relegata nel dimenticatoio dell'incomprensione». Quale la via di uscita? «L'unica via di uscita è il sostegno alla società civile siriana nella sua ricerca dell'emancipazione dal fondamentalismo e dal regime. La società civile europea deve riconoscere una cosa fondamentale: il diritto all'emancipazione dalla dittatura e dal fondamentalismo e la richiesta di diritti dei siriani, e di conseguenza premere sulle proprie istituzioni affinché realizzino questo riconoscimento». E cosa possiamo fare noi, come italiani, e l'Europa davanti al dramma dei profughi? «Noi abbiamo le nostre responsabilità, come europei. Abbiamo una storia. Dobbiamo essere consapevoli di tale passato per capire il presente. Anche noi italiani siamo stati accolti come profughi e come immigrati, e spesso ci trattavano male. Non dobbiamo dimenticarlo. Ma limitarci ad accogliere chi arriva non basta: se abbiamo delle responsabilità dobbiamo farci carico di questo». In che modo? «Esiste non solo il ruolo dello scrittore, ma anche quello del lettore, che è ancora più importante: dopo aver letto il libro, dopo aver partecipato a una serata come quella di Lissone, ciascuno di noi deve dare vita a un passa parola per creare un'indignazione di massa, perpetua, non soltanto individuale. Una cosa concreta che possiamo fare, e che invito il Comune di Lissone a fare, è approvare una mozione a sostegno dei siriani, della loro richiesta di diritti e di libertà. Un'altra cosa concreta che si può fare è mettersi in contatto con le associazioni che aiutano i profughi, donando loro abiti usati, cibo in scatola. Al posto di buttare le nostre vecchie scarpe, regaliamole a un profugo». E poi? A livelli più alti? «Dobbiamo aprire corridoi umanitari per i profughi, e dobbiamo anche chiedere ai siriani - e lo dico provocatoriamente - che si comprino il visto, pagando quello invece di dare soldi ai contrabbandieri. Molti questo lo accetterebbero. Ma la questione è a monte: risolviamo la guerra in Siria. Punto. Costruiamo una politica estera basata non sull'economia ma sui diritti umani. Se agiamo come comunità, e non come singoli individui, possiamo cambiare le cose, possiamo «smussare qualche angolo«. Ho scritto il mio libro con la convinzione, con «l'illusione« di poter cambiare qualcosa, di poter usare la letteratura come strumento per sensibilizzare. Non dobbiamo pensare di non poter fare niente: noi possiamo cambiare le cose, ma serve impegno, serve sudore»