
“Nonostante il lungo tempo trascorso“ racconta le stragi fra il ’43 e il ’45. Il materiale raccolto è il frutto dell’impegno sul campo di Marco De Paolis. Fu lui a dare inizio nel 2002 alla stagione dei processi culminati in 57 ergastoli.
Più di 25mila morti in due anni. Sono le vittime delle stragi nazifasciste nella guerra di Liberazione fra il 1943 e il 1945. Uomini, soldati, ma nella maggior parte dei casi donne, anziani e bambini, che ora hanno un volto. E soprattutto giustizia.
Le loro storie, raccontate attraverso una bambola persa durante un rastrellamento, un fazzoletto crivellato di colpi, una sveglia bloccata all’ora dell’eccidio, arrivano alla Villa Reale, che da domani fino al 26 ottobre accoglie al Belvedere l’undicesima tappa di una mostra che sta viaggiando molto per l’Italia e che ha un titolo fortemente evocativo. “Nonostante il lungo tempo trascorso... Le stragi nazifasciste nella guerra di Liberazione 1943“.
La mostra è il frutto dell’impegno sul campo, trasformato in ricerca storica e documentale, di Marco De Paolis, procuratore generale militare alla Corte militare di Appello di Roma. Fu lui a dare inizio nel 2002 alla grande stagione dei processi legati al rinvenimento nel 1994 del cosiddetto “armadio della vergogna”, in un locale di Palazzo Cesi-Gaddi a Roma. Dentro c’erano 695 fascicoli occultati sulle stragi nazifasciste in Italia dopo l’armistizio: una scoperta che ha permesso di fare giustizia, sebbene a oltre 50 anni di distanza.
La mostra, sostenuta dal Comune e dalla Reggia di Monza, è realizzata a cura dello Stato Maggiore della Difesa e della Procura generale Militare presso la Corte militare di Appello di Roma, con l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica. Curata da De Paolis con il contributo della storica Isabella Insolvibile e la consulenza scientifica dello storico Paolo Pezzino, illustra, attraverso fotografie, immagini video, narrazioni orali, documenti e schede storiche, le tappe del lungo e doloroso percorso di costruzione della Repubblica Italiana. E riprendendo e rovesciando il significato delle parole con cui nel 1960 venne operato l’insabbiamento di centinaia di fascicoli giudiziari riguardanti gli eccidi di militari e civili italiani dopo l’8 settembre 1943 (“nonostante il lungo tempo trascorso”) ha l’obiettivo, spiega De Paolis, di "evitare che il passare del tempo e la sua distanza dall’accadimento di quelle atrocità ne possa offuscare la memoria".
I numeri parlano chiaro: 70mila vittime militari in Europa in centinaia di episodi. Oltre un migliaio di vittime militari in Italia, 650 mila vittime delle deportazioni di internati militari italiani, 24.409 vittime civili in Italia in 5.872 episodi, di cui 14.935 al Nord, 6.862 al Centro, 2.623 al Sud. E poi ci sono i processi penali militari delle Corti Alleate e dei Tribunali militari italiani.
Ma soprattutto dietro a ogni numero e a ogni oggetto c’è una persona. Come racconta il fazzoletto che indossava Dante Lammioni, ucciso davanti ai familiari, la figlia violentata, nella strage di Civitella in Val di Chiama del giugno ’44. C’è la bambola rotta della piccola Maria Franca Gamba, uccisa ad agosto dalle SS con altre centinaia di civili sul sagrato della chiesa a Sant’Anna di Stazzema. C’è il filmato della testimonianza di Adolf Becket, portato a processo (chiuso con 10 ergastoli) dal procuratore De Paolis. Ci sono poi le parole registrate di Enrico Pieri, ora scomparso, memoria permanente di quella strage. "Fu fucilato con tutta la famiglia in una stalla. Si salvò solo perché coperto dai corpi degli altri". Un orrore infinito, come quello vissuto da Carlo Comellini, il primo testimone di Marzabotto interrogato dal procuratore De Paolis. "Arrivai alla caserma dei carabinieri e mi trovai di fronte il tronco di un uomo: aveva 16 anni quando arrivarono i nazisti. Dormiva in un fienile col padre, mentre la madre, che stava in casa con i bambini, fu tra le 180 vittime del rastrellamento. Si arrampicò su un albero e assistette alla loro fucilazione, dieci giorni dopo perse le gambe saltando su una mina antiuomo".
Un dolore che oggi più che mai il procuratore militare propone alle nuove generazioni come memoria e monito: "Questo è ciò che l’uomo produce, purtroppo, anche oggi". Un invito sempre attuale a non fare la guerra, affidato alle parole di Gianni Rodari sull’ultima parete della mostra.