La legge che non c’è "Li ho guariti dai tumori Quei bimbi hanno il diritto di costruirsi un futuro"

di Marco Galvani

MONZA

"La prima bambina che ho guarito? Me la ricordo bene. Aveva solo pochi mesi. L’ho rivista poco tempo fa, in occasione di una marcia ad Arcore. È una donna di 40 anni con tre figli… che mi chiamano nonno. Come tanti figli dei miei ex pazienti". Perché "sì, i bambini malati di tumore possono guarire, lasciarsi alle spalle la malattia e costruirsi una vita nuova. Ma serve una legge che non li obblighi, ogni volta, a confessare di essere stati malati di tumore. È una questione di civiltà". Momcilo Jankovic nella sua carriera in ospedale ha seguito oltre tremila ragazzi. Da giovane laureato, nel 1977, è andato subito a lavorare alla Clinica De Marchi di Milano insieme a Giuseppe Masera, il padre della lotta alle leucemie infantili. Cinque anni più tardi decise di spostarsi all’ospedale San Gerardo di Monza per fondare quello che oggi è diventato un reparto d’eccellenza a livello mondiale a cui ancora è legato nonostante la pensione. "In tutti questi anni mi è capitato di dover fare i conti con la morte, la vittoria a volte deve lasciare il posto alla sconfitta".

Oggi l’80% dei bimbi guarisce, diventa grande, si costruisce una famiglia eppure spesso si porta addosso il peso della malattia.

"Gli interessi economici hanno frenato la guarigione sociale. Un mio ex paziente da grande voleva fare il pilota. Ci ha provato, ha fatto tutti i test, ha passato gli esami, ma quando ha detto di aver avuto la leucemia, gli hanno negato il brevetto. Sì, la società li penalizza. E poi le assicurazioni? Premi altissimi. Il sistema vorrebbe avere una certezza che in medicina non esiste".

Eppure…

"Eppure paradossalmente gli ex bambini malati hanno una forza interiore incredibile. Sono mossi da una marcia in più. Lucia, ad esempio, a 10 anni si ritrovò a combattere contro la leucemia. A 19 mi disse che la malattia le aveva regalato una tenacia di ferro nel trovare una soluzione a ogni inciampo. Non bisogna darsi mai per vinti. Lo condivido. E forse tanto conta anche il mio passato, il fatto che a trent’anni anch’io ho combattuto contro un tumore, ero anch’io dall’altra parte della barricata".

Nei reparti di ematologia pediatrica la giornata è una vita intera: cosa vuol dire guardare a domani?

"Ai bambini devi sempre dare il 100% di speranza. Quando ho scelto di fare medicina l’ho fatto con l’obiettivo di aiutare gli altri, di prendermi cura delle persone e non solo di curare. I bambini sono nati per vivere e per loro il paradiso può attendere".

Nati per vivere. Oggi chi sono i ‘suoi’ bambini?

"Sono laureati, professori universitari, sportivi, una ragazza è diventata cardiologa, ma c’è anche chi ha esorcizzato a tal punto la malattia che è diventata ematologa. Un ragazzo, invece, pilota di aerei di linea è riuscito a diventarlo. E tanti sono, soprattutto, mamme e papà".

Famiglie inaspettate in un futuro che si pensava irrealizzabile?

"Gli ex pazienti hanno cicatrici che, però, non impediscono affatto di raggiungere traguardi di studio e lavoro e di costruire una famiglia".

Anche se ancora oggi gli ostacoli burocratici tornano spesso a disegnare attorno l’ombra della malattia.

"In un certo senso la società sa essere cattiva. Il percorso di cura è buio, la guarigione lo illumina, ma la società deve continuare a tenere viva quella luce. Anche su quel 10% circa di ex pazienti che non vuole in alcun modo parlare più della malattia".

Lei per i bambini era il Dottor Sorriso. Nella tasca del suo camice c’era sempre l’agendina nera con i numeri di calciatori, cantanti e attori che l’hanno trasformato in una specie di mago dei sogni. Oggi qual è il sogno del dottor Jankovic?

"Intanto quello che mi ha salvato, davanti alla morte, quello che mi ha tenuto a galla è stato avere un obiettivo concreto, anche sapendo di non essere onnipotente. È quell’80% di bambini guariti che ti dà la forza di andare avanti. È rivedere il sorriso che si era spento alla diagnosi della malattia. È trovare la forza di andare avanti. Anche a costo di mentire. Sì, di dire una bugia bianca per non essere discriminati a vita anche dopo la guarigione. È assurdo, ma oggi la situazione è proprio questa. Molto spesso gli ex pazienti che ormai si sono ‘dimenticati’ la malattia, per ricominciare a vivere normalmente devono mentire. Quando, invece, tutto sarebbe più semplice se ci fosse una legge capace di dare dignità a loro e alle loro famiglie. Quindi è proprio qui che coltivo il mio sogno. Qual è? Beh, di avere sempre più nipoti acquisiti...".