
L'insegna dell'Icmesa
Meda, 27 novembre 2023 – C’era una volta una fabbrica di vanillina trasformata in una bomba chimica. L’Icmesa, 175 lavoratori alla vigilia del sibilo diabolico che il 10 luglio 1976 in una tarda mattinata diffuse chili di diossina sulla Brianza, per anni ha celato il segreto della propria pericolosa produzione. All’oscuro operai e abitanti dei paesi nei quali, dopo il trasloco da Napoli nel 1945, iniziò una difficile convivenza con il territorio, fatta di scarichi velenosi nel torrente Tarò, che costeggiava la fabbrica, di emissioni nocive e proteste.
Quando avvenne il disastro, le autorità italiane e l’azienda svizzera, la Roche-Givaudan, che controllava la ditta, cominciarono a trattare sui soldi e sulla bonifica. A raccontare i segreti, a raccogliere voci e timori, documenti e persino ritagli di giornale, su tutta la vicenda sono l’ambasciata svizzera, il consolato e il governo elvetico. Centinaia di dossier che per la prima volta, dall’archivio federale, si aprono alla consultazione. Ed ecco, fra migliaia di pagine, alcuni fatti.
Le pressioni
È passato un mese dal disastro. Il 10 agosto ’76 Guy Waldvogel, direttore generale di Givaudan, si presenta in visita ai funzionari del governo elvetico. Chiede aiuto e soprattutto di essere messo a conoscenza di qualunque mossa politica. Quando però dalla Svizzera arriva al premier Giulio Andreotti una lettera ufficiale, generica, per esprimere solidarietà e offrire aiuto, il 26 agosto Waldvogel prende carta e penna.
Scrive e protocolla una lettera di fuoco al dipartimento politico federale di Berna, "sorpreso" per "un’iniziativa presa senza informarci preventivamente". Tale è la potenza di un’azienda privata da poter rimproverare, per iscritto e su carta intestata, un governo senza alcun timore.
La bonifica farsa
Mentre fra Seveso e Meda cominciano gli sgomberi degli abitanti e l’affare della Diossina, con gli abbattimenti degli animali e i bambini ricoverati per la cloracne sul volto, diventa un caso mondiale, la multinazionale farmaceutica propone alla Regione Lombardia una bonifica con il “metodo Givaudan”. Titoli sui giornali, promesse.
L’idea si basa sulle radiazioni solari, che sono capaci di distruggere la diossina se sospesa in una sostanza grassa. Così l’Icmesa propone di irrorare la campagna contaminata con olio d’oliva, per catturare il veleno e distruggerlo con gli ultravioletti.
Ma ci vogliono pochi giorni per capire che l’olio non serve a nulla. "Anzi, con le piogge non si realizza la reazione fotochimica e la sostanza penetra di più nel suolo", si legge in un dossier del 31 agosto 1976. E dell’olio non si parla più.
In Usa e Urss
Il vero capitolo spinoso su Seveso è però cosa realmente producesse l’Icmesa. Sono gli stessi diplomatici svizzeri, a fine agosto 1976, a riportare le prime ammissioni dei vertici aziendali messi sotto inchiesta in Italia.
È il 31 agosto quando l’ambasciata scrive a Berna: "Nel corso di un interrogatorio del giudice istruttore si sarebbe stabilito che l’Icmesa non producesse altro che triclorofenolo (il diserbante fuoriuscito insieme alla diossina) destinato all’esportazione (Usa e Urss)".
Per gli svizzeri, quindi, si stabilisce un collegamento diretto fra la produzione del triclorofenolo, sostanza usata anche per creare l’Agente arancio, defogliante usato in Vietnam, e l’America che "ha inviato in zona funzionari Nato da Vicenza" dopo l’incidente.
In un altro documento del ’76 si legge del sequestro "di una fattura senza il nome del cliente" per l’esportazione del veleno. E si riferiscono dubbi sui camion che circolano in fabbrica, "trasporti nel fine settimana con targhe sovietiche e svedesi".
Dai profumi ai veleni
Che qualcosa non funzioni all’Icmesa lo dicono anche gli atti giudiziari. La perizia dei tecnici chimici destinata ai giudici di Monza che negli archivi svizzeri è riportata nei dettagli. È il 4 gennaio 1979 e arrivano duecento pagine di relazione. Qui si racconta come un’anonima fabbrichetta (che Givaudan rileva per intero solo nel 1969) si converte.
Dalla produzione di profumi e aromi, come la vanillina, grazie a un passaggio attraverso sostanze fenoliche, si può passare a quella dell’erbicida. Si parte nel 1971 con un lotto pilota. "Icmesa sa dei rischi e della carenza di sicurezza degli impianti e non prende alcuna precauzione". Solo nel 1975 la produzione riprende copiosa. Poi, il disastro.