DARIO CRIPPA
Cronaca

Coronavirus, la geriatra: "Si muore soli, ho deciso di stare con loro"

Monza, Barbara Fumagalli è una degli ottomila medici che hanno risposto all’appello per andare a combattere in trincea

Barbara Fumagalli

Monza, 12 aprile 2020 - Quando si è capito che le cose si stavano mettendo male, fra i tanti appelli è partito anche quello per reperire nuovi medici che se la sentissero di andare in corsia a lavorare all’emergenza sanitaria più grande dal Dopoguerra. In Italia hanno risposto in 8.000Barbara Fumagalli, 54 anni, è una di loro. Geriatra, un impiego tranquillo negli ambulatori agli Istituti Clinici Zucchi, è andata in trincea. "Mi ha chiamata il direttore sanitario, c’era bisogno di medici che potessero dare una mano nei reparti in cui sono ricoverate persone con altre patologie, l’occhio di un geriatra abituato ad avere a che fare con persone fragili e anziane poteva essere utile. Anche per dare un po’ di respiro ai due reparti Covid che sono stati immediatamente allestiti in clinica e in cui sono ricoverati oltre cento pazienti".

Timori? "Non ero abituata a lavorare in corsia, con i malati allettati, ormai da anni facevo solo attività ambulatoriale. Il timore più grande era quello di essere inadeguata… ma per fortuna lavoro a fianco colleghi fantastici pronti tutti a darsi una mano". Com’è la vita un trincea? "Faccio quello che posso, ho dovuto imparare a gestire il malato allettato e impratichirmi con terapie da malato acuto. Siamo tutti in una situazione nella quale ti accorgi che non puoi fingere, o una cosa la sai fare oppure è meglio che lasci perdere!". Non puoi barare, altrimenti la gente muore. "Esatto. Abbiamo riscoperto tutti una grande umiltà, ci sono colleghi che non erano più tanto giovani eppure si sono messi subito a disposizione". Paura del contagio? "Si lavora tutti bardati con tutte le protezioni sanitarie necessarie. E poi nel mio reparto non è Covid, anche se…". Anche se? "Non sai mai con chi ti trovi ad avere a che fare. Può capitare che il tuo paziente cominci ad avere febbre, tosse, diarrea, insomma tutti i sintomi del coronavirus… e allora gli si fa il tampone e solo a quel punto scopri che anche lui ha contratto il Covid… è successo, accade. E tu medico non potevi conoscere l’evoluzione della sua patologia e hai continuato a entrarci in contatto per curarlo. È inevitabile, ed è giusto così". È dura? "C’è tanta sofferenza, ci sono pazienti che possono avere più patologie e trovarsi in condizioni molto critiche, e qualcuno di loro muore. Può accadere tutti i giorni. Ma la cosa che più mi ha colpito finora è la solitudine". In che senso? "I pazienti non hanno più contatti con le loro famiglie, e noi medici diventiamo l’unica risorsa per loro. E allora scopri cose a cui non eri più abituato…". Cosa? "Ci sono malati, anziani soprattutto, che cercano e hanno bisogno di un contatto umano, che ti chiamano per chiederti aiuto nelle cose pratiche, come cercare in un armadio qualcosa, magari un capo di biancheria di cui hanno bisogno. Certo, ci sono gli infermieri, ma tante volte anche noi medici dobbiamo riscoprire che non siamo lì soltanto per curare, ma anche per fornire un servizio". Una missione? "In un certo senso sì, la cosa più terribile per chi soffre è restare da solo e morire senza conforto. E allora il medico non può più limitarsi occuparsi delle questioni sanitarie, che pure sono l’aspetto più importante della nostra professione, ma deve anche riscoprire un aspetto di servizio alla persona che magari nella routine si tutti i giorni ci eravamo dimenticati". Si spieghi. "Ci sono situazioni difficili, pazienti le cui famiglie si sono trovate disgregate da questa pandemia, in cui un parente è ricoverato in un ospedale e il suo congiunto da un’altra parte e un altro ancora sta morendo lontano… è un’esperienza difficilissima dal punto di vista umano, a volte ci ritroviamo, quasi impotenti, a tentare di aiutare a tenere i contatti, a fare da ponte maneggiando i loro telefoni cellulari. Capisci davvero come dietro i numeri ci sono persone, storie di sofferenza e paura". Perché lo ha fatto? "Ho deciso perché sono convinta che nella vita quando nella vita dici “sì” hai sempre qualcosa da imparare. Ho ricevuto molto dalla vita, volevo restituirlo". E a casa sua, come hanno reagito? "Mio marito è un medico, impegnato pure lui sul Covid in un grande ospedale di Milano, ovviamente abbiamo deciso di dormire in stanze separate in questo periodo". Ha anche dei figli a casa? "Sì, sono giovani ma per fortuna abbastanza grandi… Mi hanno chiesto solo preoccupati di non lavorare pure io in un reparto Covid, ma poi hanno capito". Difficile? "Ho sempre pensato che nella vita insegni ai figli più con quello che fai che con quello che dici. E a casa i ragazzi aiutano molto, cucinano, lavano, rassettano, per fortuna sono abbastanza grandi per farlo".