DARIO CRIPPA
Cronaca

Coronavirus, a Monza "intubati e in terapia intensiva anche i giovani"

Nell’inferno del Pronto soccorso: "Non avevano alcuna patologia, ragazze di poco più di 20 anni che non respiravano da sole"

Coronavirus

Monza, 11 marzo 2020 - I turni sono massacranti. I riposi – fisiologici – possono saltare da un momento all’altro. Entri per fare sei ore, dodici la notte, ma in realtà non sai mai veramente quando te ne andrai. "L’altro giorno sono entrata in servizio alle 8 e sono uscita alle 23.30. E vedi cose brutte, cose veramente brutte... ci sono momenti in cui scoppi a piangere, in cui vedi un collega, un altro medico, un infermiere che scoppia a singhiozzare all’improvviso, colto da una crisi di nervi che lo spinge quasi a strapparsi il camice di dosso per lo stress. Allora devi lasciarlo uscire un attimo a prendere un bel respiro...". Vita di trincea. Vita dall’interno di uno dei pronto soccorso della Brianza. Non possiamo dire quale, per proteggere la privacy, ma il racconto che arriva dall’interno, da chi si trova a fronteggiare un’emergenza sanitaria senza precedenti e ad avere a che fare ogni giorno con il Covid-19 sono un pugno nello stomaco. È lo sfogo di un medico di pronto soccorso, uno dei tanti che si ritrovano a combattere questa battaglia di cui non si vede – al momento – uno spiraglio. «Siamo abituati a reagire alle emergenze, al pronto soccorso ti ritrovi abitualmente ad avere a che fare con la morte, vedi gente che esce martoriata da un incidente stradale o con un attacco cardiaco, o magari alle prese con patologie terribili, ma questa emergenza proprio non me la sarei mai aspettata”.

È così terribile? “Sì, non voglio spaventare nessuno, ma le situazione è pesantissima, anche perché stiamo imparando ora dopo ora come funziona”.

Come siete organizzati? “Nei tendoni allestiti dalla Protezione civile si fa il triage. E si decide a chi affidare il paziente, se deve andare in terapia intensiva, se basterà una mascherina o ci vorranno i colleghi del reparto infettivi bardati con tutti i dispositivi di protezione come palombari. Spesso all’inizio è difficile capire: prima di arrivare al tampone, ci si affida a esami del sangue e lastre del torace. Dal sangue capisci ad esempio se hai a che fare con qualcosa di batterico oppure se si tratta di un virus”.

E nel secondo dei casi ovviamente si apre la possibilità di avere a che fare col Covid. “Le lastre sono già dirimenti. I polmoni dei contagiati sono in condizioni terribili”.

Quando vi siete resi conto di quanto stava accadendo? “Ben prima del primo caso scoperto a Codogno... già a dicembre avevamo avuto le prime avvisaglie. Arrivavano pazienti con delle brutte polmoniti”

Cosa significa “brutte”? “Ad esempio “bilaterali”, con entrambi i polmoni colpiti e i pazienti in crisi respiratoria. Ci sono sempre state ovviamente, ma non ce le aspettavamo già a dicembre e così tante”.

Si dice che pazienti in condizioni peggiori sono anziani o quelli con patologie pregresse “Non è sempre così, anzi: abbiamo a che fare con tanti giovani, persone che non avevano alcuna patologia, ma che si sono ritrovate a dover essere intubate e messe subito in terapia intensiva… ragazze di poco più di vent’anni in affanno e che respirano soltanto grazie al CPAP (“Continous Positive Airway Pressure, i caschi respiratori che permettono di fornire ventilazione artificiale, ndr)”.

I medici e infermieri hanno paura? “Sì, abbiamo la sensazione a volte che in parecchi di noi, se si sottoponessero al tampone, risulterebbero pure loro positivi. E’ un momento molto faticoso, sia dal punto di vista fisico sia emotivo... non sai cosa ti succederà né cosa accadrà alla tua famiglia, ai tuoi genitori, ai tuoi figli. A tutta la popolazione”.

Come sta reagendo la gente? “Non ha capito o forse comincia a farlo parzialmente soltanto adesso. Ce ne siamo accorti quando abbiamo visto calare drasticamente gli accessi al pronto soccorso per ragioni tutt’altro che necessarie. Quando mi capita di uscire per andare a fare la spesa per la mia famiglia, perché non voglio che si mettano a rischio anche loro, vedo i supermercati pieni, i parcheggi intasati, la gente a spasso. Fino a pochi giorni fa, prima che finalmente le chiudessero, persino le piste da sci erano stracolme… E invece no, bisogna stare a casa: bisogna interrompere il ponte che consente al virus di continuare a passare da un uomo all’altro, solo così possiamo farcela. In Cina lo hanno capito e, con misure drastiche e durissime, stanno riuscendo a fermare il contagio. Dovremmo fare anche noi così oppure il sistema sanitario non riuscirà a reggere questa ondata”.

Rabbia e sconforto “L’altro giorno è arrivato in ospedale un paziente: era anziano, aveva la febbre a 38 da diversi giorni, fino a quando ha confessato candidamente che la sera prima di venire in pronto soccorso era andato a ballare. ‘Ma come ha fatto, con la febbre?? Gli abbiamo chiesto sconcertati… E lui ha risposto: “Sì, ho preso una tachipirina e sono uscito”. Ecco, se non lo capiscono neppure le persone che per età dovrebbero essere più sagge.... Lo ripeto: state a casa, riducete il più possibile i contatti sociali o tutti i nostri sforzi non basteranno”.