ALESSANDRO CRISAFULLI
Cronaca

L’odissea dell’allenatore monzese in fuga dalla Palestina: “Ma i miei piccoli giocatori restano lì sotto le bombe”

Alberto Giacomini era appena arrivato a Ramallah quando è partito l’atacco di Hamas a Israele. Avrebbe dovuto iniziare un corso di calcio come tecnico della Fifa: "Era impossibile restare, siamo scappati”

Alberto Giacomini insegna il calcio in giro nei paesi del Terzo Mondo

“Quel che è certo è che qui ci torno: io sono scappato, mentre i missili passavano sopra le nostre teste, ma i 100 bambini e i 50 allenatori palestinesi sono lì". È seduto in aereoporto in Giordania, pronto per prendere il primo volo per rientrare a Milano via Doha, dopo una repentina fuga dal frastuono dei bombardamenti, Alberto Giacomini, 44enne allenatore monzese globetrotter, che porta in giro per la Fifa il “vangelo del pallone“ nei Paesi più periferici del mondo. Alla periferia del benessere. E, spesso, al centro di povertà e guerre.

Proprio il giorno prima che Hamas scatenasse l’inferno contro Israele, era arrivato in Palestina, per l’ennesima volta. Al centro sportivo “Joseph Blatter Academy“, ad Al-Bireh, alla periferia di Ramallah, la capitale dello Stato Palestinese. Per formare i tecnici locali e per far divertire una “squadra del sorriso“, che avrebbe solo voluto giocare a calcio. E invece.

“Sto tornando in Italia", racconta da Amman Alberto Giacomini, responsabile del Liceo sportivo al Collegio Villoresi. Ha girato oltre 50 Paesi per insegnare stop, dribbling e valori a oltre 20mila bambini di ogni etnia: "Sarei dovuto rimanere una manciata di giorni, per poi andare in Libano, ma è stato cancellato tutto. Sarebbe stato un bel segnale rimanere, fare gli allenamenti e il corso, dimostrare una volta di più la forza del calcio. Ma giustamente i vertici Fifa hanno preferito farci rientrare per la nostra incolumità". Giusto così, anche se gli resta il forte rammarico di non essere riuscito a portare a termine la sua missione, per colpa dei missili. "Tra Inter Campus e progetto Fifa sono stato in Palestina almeno venti volte, ma mancavo da questo Paese complicato da ormai quattro anni e i ricordi legati ai controlli e ai vari militari che popolano questo spazio non erano dei migliori. Ma allo stesso tempo ero contento di tornare da queste parti".

Fino a quando, "al check point da cui dovevamo passare per entrare in Palestina siamo stati travolti dalla notizia che sta sconvolgendo il mondo: Hamas aveva attaccato Israele con migliaia di missili ed era stato dichiarato lo stato di guerra. Quindi: confini chiusi e massima allerta". Scenario, prospettive, umori, certezze, cambiano all’istante. "Abbiamo iniziato il corso, ma poi ci siamo chiusi in hotel, è salita la tensione, siamo usciti per cena vicino all’albergo ma il responsabile della Fifa ci ha detto assolutamente di tornare indietro. Abbiamo passato la notte smarriti, a capire cosa fare e cosa non fare. Il giorno dopo siamo stati blindati nelle camere sentendo gli aerei, i bombardamenti sopra le nostre teste, poi finalmente è venuta a prenderci un’auto della Fifa, abbiamo passato i check-point con parecchia tensione, anche perché c’era con noi una ragazza della comunicazione che vive in Svizzera ma ha passaporto palestinese, siamo arrivati al confine con la Giordania attraverso Allenby Bridge e ci siamo messi al riparo". In quelle ore, in quei giorni convulsi, ha visto con i suoi occhi il caos e il terrore, "un traffico allucinante, strade bloccate, gente che urlava, gruppi di ragazzini con il volto coperto da foulard verdi e sventolanti bandiere palestinesi che bruciavano cumuli di copertoni vicino al muro a pochi metri dalla ‘frontiera’ e altre colonne di fumo nero all’orizzonte, in corrispondenza degli altri punti di ingresso".

Eppure, all’inizio, "tutto sembrava comunque far parte del quotidiano stato di ‘normalità’ di questo lato di mondo, per cui abbiamo preparato l’aula e il campo per il corso, ho avuto modo di guardare la partita dell’Inter e pure di allenarmi...". Fino all’ordine perentorio: "Tutti via subito!". E la repentina fuga verso un tetto sicuro. Ma col pensiero a "quei 100 bambini che non voglio abbandonare".