
Una diga
Milano, 26 gennaio 2015 - La regola è stata messa nero su bianco 17 anni fa: in Italia le concessioni per le grandi dighe devono tornare allo Stato ed essere assegnate al miglior offerente attraverso una gara pubblica. Mercato libero, procedure trasparenti, stop ai monopoli, questa è la linea che impone anche l’Unione europea. L’applicazione, tuttavia, tarda a venire e dall’ultima legge in materia, il decreto Bersani del 1999, si procede a ritmo di proroghe dello status quo, molte tra l’altro già scadute. Con conseguenti bocciature da Bruxelles e allegata procedura d’infrazione, censure di «incostituzionalità» dalla Corte costituzionale, critiche dall’Antitrust.
Risultato: gli attuali gestori di dighe e centrali idroelettriche, o meglio, delle «grandi derivazioni», si tengono stretti impianti costruiti 50-60 anni fa, dunque già ammortizzati, mentre gli imprenditori che vorrebbero subentrare nelle concessioni restano in panchina. Senza regolamenti, d’altronde, non c’è modo di applicare il decreto Bersani. E allora fa testo una legge ancora più vecchia, il regio decreto 1775 del 1933 «sulle acque e impianti elettrici», che ha disciplinato per 80 anni la costruzione di dighe e centrali. Ed è proprio quello che hanno chiesto alcuni industriali alla provincia di Sondrio: se non possiamo subentrare alla gestione di un impianto già attivo in Valtellina, ci candidiamo per costruirne uno nuovo nello stesso punto. Fascicolo depositato e accettato.
Il paradosso è frutto della paralisi decennale dell’industria idroelettrica nazionale. Le leggi d’altronde non hanno ancora dato il via libera alle gare, ma non possono vietare di proporre nuove costruzioni, sebbene in Italia non ci siano spazi liberi. L’idroelettrico è stato proprio il motore della rivoluzione industriale nel Belpaese a fine Ottocento e tra gli anni Cinquanta e Sessanta tutte le grandi derivazioni sono state occupate. Le gare avrebbero dovuto garantire il ricambio, ma non sono partite. C’è un però. «Secondo una sentenza del Tribunale superiore delle acque pubbliche, non si può impedire di chiedere una nuova concessione in attesa di eventi futuri», spiega Marco Bissi, titolare della società Rezia idroelettrica di Sondrio. Così l’imprenditore ha protocollato la sua proposta: «derivare acqua dal fiume Adda e dai suoi affluenti», «con lo scopo di produrre energia elettrica». La provincia di Sondrio ha regolarmente istruito il fascicolo, così come aveva già fatto per la proposta della Eisackwerk di Bolzano e, in sequenza, per quella di Edison.
Nel giro di pochi mesi tre concorrenti sono scesi in campo per accaparrarsi il bacino idrografico dell’alta Valtellina. Segno che il mercato, nonostante il blocco delle concessioni, è pronto a scattare. Il progetto degli altoatesini è titanico, si stima un investimento di 700 milioni di euro. L’impianto avrebbe una potenza nominale di 155 megawatt, più di 500 megawatt di potenza installata, e genererebbe più di un miliardo di kilowatt/ora. Pescherebbe l’acqua che oggi viene incanalata verso le quattro grandi centrali A2a di Grosio, Grosotto, Lovero e Stazzona, che verrebbero chiuse. Bissi, al contrario, ha presentato «un unico impianto invisibile, che si sviluppa in caverna, e che usando meno acqua produce più energia». «Aprire al mercato – prosegue l’imprenditore – portebbe a un avanzamento tecnologico degli impianti, a un risanamento ambientale e a milioni di indotto e lavoro sul territorio». Solo in Lombardia i diritti per 15 grandi derivazioni su 82 sono già scaduti, tre termineranno quest’anno e quattro entro il 2020, tutte in mano ai grandi gruppi dell’energia: Edison, Italgen (collegata a Italcementi), Edipower e Aem (queste ultime controllate da A2a). Nel 2029 si esaurisce anche la maxi-proroga di Enel e si svincolano 39 impianti. Nel frattempo, gli imprenditori dell’idroelettrico investono nelle taglie mini: piccoli salti, anche in pianura. Come la centrale inaugurata da Bissi lo scorso maggio alle porte di Milano: «E ne abbiamo altre dieci già autorizzate».