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Trapianti, perché chi permette la donazione non deve incontrare chi riceve

La rete nazionale fornisce informazioni sul destino degli organi e su quante persone hanno salvato, ma nell’anonimato. «Bisogna tutelare le famiglie e i malati da altro dolore». Il caso dell’uomo che credeva di essere diventato cattivo di Giulia Bonezzi

Un’équipe medica al lavoro su un trapianto

Milano, 15 novembre 2014 - Anna e Marco sono nomi di fantasia: la donna che al Policlinico di Milano ha ricevuto il primo trapianto di polmoni in Italia da una persona col cuore fermo e i familiari di quella persona, non si conosceranno mai. A tutte le famiglie che hanno dato il via libera alla donazione, dopo un po’ arriva una lettera di ringraziamento. Qualcuna vorrebbe sapere a chi sono andati gli organi del proprio caro. Anche qualcuno di coloro che li hanno ricevuti vorrebbe sapere da chi arrivavano. La rete nazionale dei trapianti fornisce, anche a dieci anni di distanza dalla morte o dall’intervento, molte informazioni: quanti e quali organi o tessuti sono stati trapiantati, a quante persone e perché, anche come stanno. Ma i nomi non li fa mai. Può arrivare, in certi casi attentamente valutati dagli psicologi, a fare da pontiere, consegnando messaggi degli uni agli altri e viceversa. Ma non promuove nessun contatto diretto.

«Se intuiamo che dietro a queste richieste c’è un bisogno di elaborare il lutto, o un problema irrisolto circa la donazione, intervengono i nostri psicologi», spiega Giuseppe Piccolo, direttore del Nord Italia Transplant program, che è stato la prima organizzazione italiana nel campo dei trapianti, creata nel 1972 da cinque regioni (Lombardia, Liguria, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Marche) e una provincia autonoma (Trento) su un’area di oltre 19 milioni di abitanti, con base alla Fondazione Ca’ Granda. Quello che più di tutto bisogna far capire «è che chi ha ricevuto gli organi non è la persona che è morta». E non è una cosa scontata, come dimostrano alcuni dei casi in cui l’anonimato garantito dalla rete viene comunque infranto. Perché magari la storia è finita sui giornali, perché la sa tutto il paese, perché in reparto è scappata una parola di troppo. A volte è andata bene, la famiglia del donatore e il ricevente si sono addirittura incontrati. Molte altre volte, invece, ci sono stati problemi e tutti ne hanno ricavato solo altro dolore.

Un caso che molti ricordano è quello di un uomo che aveva avuto un trapianto di fegato, e dopo qualche mese era stato seguito dagli psicologi perché sosteneva di essere diventato aggressivo: aveva «paura di fare male agli altri». Dai colloqui poi era saltato fuori che aveva saputo, da una frase sfuggita a qualcuno, che il suo donatore era stato in carcere. Il fegato che gli avevano trapiantato era quello di un rapinatore morto in un conflitto a fuoco con i carabinieri durante un colpo. Lui non ha mai saputo tutta la storia, ma quella mezza frase era bastata per gettarlo in una condizione di profondo disagio.

«C’è una valutazione psicologica anche sui pazienti prima di metterli in lista - continua Piccolo -. L’attesa è un periodo difficile e c’è bisogno di un’aderenza totale alle cure nella fase post-trapianto. Ma il punto è che sia i familiari del donatore che il ricevente sono soggetti deboli, da tutelare. Entrambi tendono a immaginare la persona che ha avuto gli organi e quella che li ha donati come la migliore al mondo. Ed è bene non infrangere questa figura illusoria».

C’è una terza parte alla quale l’associazione fornisce «una restituzione d’informazioni»: sono gli operatori sanitari che si sono occupati del donatore. A differenza di chi ha curato il ricevente, salvandolo, loro hanno prelevato gli organi, senza sapere che fine hanno fatto. «Questo lascia un senso di vuoto. Perciò scriviamo una lettera, di solito al primario, per dare notizie sui trapiantati, sempre nel rispetto dell’anonimato. E a fine anno, attraverso i nostri coordinatori locali, facciamo sapere a tutti, dal chirurgo a chi lavora alla camera mortuaria, quanti sconosciuti hanno contribuito a curare».