
Raffaele Riefoli (65 anni) in arte Raf “Self Control“ pubblicata nel 1984 ha venduto più di 20 milioni di copie nel mondo
L’idea iniziale era quella di un tour nei club. “Perché ‘Self control’ è nata lì e quella era, quindi, la sede naturale in cui festeggiarne i 40 anni”, racconta Raf a proposito della celebrazione che lo porta il 23 maggio agli Arcimboldi e in 19 luglio al Lazzaretto di Bergamo nell’attesa di tornare poi in autunno, il 15 novembre al Teatro Sociale di Mantova, il 22 al Clerici di Brescia e il 25 al Galleria di Legnano. “Poi c’è stata l’idea di anticipare il giro di concerti con un evento al Forum, lo scorso novembre, anche se la cornice ideale di alcune delle mie ballad più popolari, magari in versione acustica, sono auditori con la gente seduta. Così abbiamo pensato di aggiungere una tranche nei teatri”.
C’è stata qualche canzone che ha avuto una seconda chance da questi concerti?
“La maggior parte delle canzoni in scaletta hanno avuto un percorso felice fin dall’uscita. Io, però, lo scorso anno ho avuto l’idea di rivisitarne alcune in collaborazione con dei colleghi e riunirle in un ep passando da ‘Due’ con Elodie ad ‘Infinito’ con Levante, da ‘Cosa resterà degli anni ‘80’ con Giuliano Sangiorgi e ‘Il battito animale’ con J-Ax, ma anche ‘Lacrime e fragole’ e ‘La danza della pioggia’, che non fanno certo parte delle mie dieci hit più popolari, Davide Bassi, anzi Bassi Maestro, come si fa chiamare. Sentire com’è venuta ‘Cosa resterà…’ riarrangiata per l’orchestra di Ennio Morricone è stata, indubbiamente, una scoperta”.
Dopo questo tour cosa c’è?
“Farò musica per tutta la vita ma non credo che farò dischi per tutta la musica. Anche se qualche altro vorrei metterlo in cantiere. Sto scrivendo con l’intenzione di mettere in cantiere, magari, un nuovo album da pubblicare nel 2026. Anche se viviamo in un’epoca in cui sembra complicato produrne, perché si prediligono le performance degli algoritmi digitali alle emozioni; un’epoca di tormentoni da far sembrare il pop degli anni ‘80-‘90 profonda musica d’autore. Impegnata”.
Il tour va avanti dall’anno scorso. Per Raf ci sono più Italie o una sola?
“Il pubblico un tempo cambiava nettamente tra Napoli e Milano, mentre oggi le differenze sono molte di meno, un po’ perché la televisione ha appiattito i gusti delle masse e un po’ perché l’alta connettività offerta da computer, tablet e smartphone ci rende tutti cittadini del villaggio globale”.
Il 5 ottobre lei è fra gli ospiti dell’“ultima notte rosa” che Umberto Tozzi ha in agenda all’Arena di Verona. Conoscendolo bene, ha capito se smette oppure no?
“Sta vivendo un periodo molto combattuto. Tendenzialmente è una persona pigra che, però, quando sale sul palco ha una gran voglia poi di rimanerci. Al di là degli annunci, non so alla fine quali delle due anime prevarrà. Personalmente, l’avevo sconsigliato di prendere una decisione così tranchant. Ora mi auguro che voglia prolungare ancora un po’ questo tour d’addio, perché ai suoi concerti mi diverto ancora”.
Lei non l’avrebbe fatto, dunque?
“No, perché lungo il cammino gli stati d’animo cambiano e c’è il rischio di pentirsi. Ecco perché io un annuncio del genere lo farei solo alla fine, dicendo: signori il prossimo è il mio ultimo concerto”.
Come si trova un artista degli anni Ottanta come lei nell’era delle sequenze?
“Nonostante l’invadenza della tecnologia bisogna cercare di non disumanizzare troppo il live. Se no ci si ritrova a fare i dee jay di sé stessi. E non è bello. Il live dev’essere di gran lunga predominante sugli ‘aiuti’ dell’elettronica lasciando alle sequenze solo certi suoni di cui non puoi disporre sul palco; quelli di un’orchestra d’archi di 40 elementi, ad esempio. Oppure una sonorità creata in studio con una settimana di lavoro. Ma il sudore del cantare, del suonare il basso, la chitarra o la batteria ci deve essere eccome”.