John Cale: “Io, Warhol e Lou Reed, tra lavoro e dissolutezza”

L’anima sovversiva dei Velvet Underground al Dal Verme con “Mercy” ricordando Nico

John Cale, storico componente dei Velvet Underground, sarà a Milano il 12 giugno

John Cale, storico componente dei Velvet Underground, sarà a Milano il 12 giugno

Bowie diceva che per lui il suono dei Velvet Underground era John Cale. Il vero sovversivo della band. Ed è con quell’allure di venerato agitatore culturale che il musicista gallese sbarca il 12 giugno al Dal Verme con le canzoni dell’ultimo album "Mercy", uscito a gennaio, e i ricordi virati nostalgia di compagni d’avventura come Lou Reed, Sterling Morrison, e le canzoni cresciute nel loro appartamento di Ludlow Street, a Manhattan, prima dell’incontro con Andy Warhol che gli avrebbe cambiato a vita.

Brian Eno una volta ha detto che il primo album dei Velvet Underground all’inizio vendette solo 10.000 copie "ma tutti quelli che lo comprarono formarono poi una band". Esagerato?

"Non lo so. Ma penso che stesse cercando di chiarire il punto sul fatto che l’album con la banana in copertina fosse qualcosa di troppo fuori dal mainstream per la maggior parte delle persone che ascoltano la radio pop, ma forse altri musicisti potrebbero capire che l’arte era qualcosa di diverso e forse li ha ispirati. Immagino sia quello che intendeva veramente con quell’affermazione".

Cosa le manca oggi di Lou Reed?

"Molte cose. Penso che sarebbe una buona voce letteraria per i tempi che viviamo. Era capace, infatti, di scrivere su qualsiasi cosa gli passasse per la mente con assoluta sincerità".

Warhol era davvero “Drella”, un po’ “Dracula” è un po’ “Cenerentola”, come lo chiamava Robert Olivo, alias Ondine, ai tempi dei Factory e come lo avete chiamato lei e Lou in uno dei migliori album della vostra discografia?

"Certo che lo era. Era molte cose per molte persone. Un camaleonte. Era capace di adattarsi allo stesso modo all’élite aristocratica di New York e al gruppo di artisti stravaganti che popolavano la sua Factory mischiando lavoro e dissolutezza in egual misura".

Lei è sempre stato un artista prolifico, ma ci sono voluti sette anni per pubblicare “Mercy”. Perché?

"Beh, dobbiamo ricordarci che abbiamo avuto circa due anni cancellati dal Covid e non sono riuscito a entrare in studio. Ho iniziato l’album diverse volte, continuamente distratto da tour, colonne sonore di per il cinema ed eventi speciali come il concerto per droni aerei al Barbican di Londra. Ma credo che ‘Mercy’ abbia beneficiato del fatto di potersi prendere il suo tempo".

In “Moonstruck (Nico’s Song)” ricorda, appunto, Nico dicendole: “Sei una signora tossica con la testa fra le nuvole, ti guardi i piedi / Sospiri parole in una lettera / Che andrà aperta alla tua morte”.

"Chi ha familiarità con la vita di Nico, sa che non è mai stata tipica di niente. Essere infelice era ciò che la rendeva felice. Sentirsi torturata ha alimentato la sua scrittura di canzoni. Era complicata. Le ‘parole nella lettera’ sono le sue canzoni, la sua poesia, ciò che ha lasciato perché il mondo la trovasse. Curando gli eventi Life Along The Borderline (Nico Fest), sono rimasto sorpreso da quanti giovani artisti volessero partecipare; dal profondo amore nutrito per Nico e dal desiderio di rendere omaggio non tanto alla musica dei Velvet, ma alla sua".

Eno ai tempi delle registrazioni di “Fear” disse che lei è “esplosioni di genio inframezzati da oceani di disattenzione”. L’ha poi perdonato?

"Non ho bisogno di perdonarlo. Quel periodo fu un disastro. In giro c’erano troppe sostanze su cui mettere le mani. Non mi pento di nulla, ma sono contento di aver smesso con le sciocchezze autodistruttive per poter andare avanti con la mia arte".

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