GABRIELE MORONI
Cronaca

Vigili del fuoco, gli angeli lombardi nell’inferno di Genova

Vigili del fuoco lombardi fra le macerie. «Su quel ponte ci siamo passati tutti»

I vigili del fuoco milanesi che hanno operato a Genova

Milano, 25 agosto 2018 - Sorridono e rimandano al mittente a sentirsi chiamare eroi. Se si sentono paragonare a degli angeli non alzano lo sguardo al cielo ma lo abbassano fino alla punta degli scarponi. I vigili del fuoco di Milano e la tragedia, immane, di Genova. Gente abituata a percorrere la penisola devastata dagli incendi, squassata dai terremoti, sommersa dalle alluvioni. Ma questa volta era diverso. Perché già al primo, terribile impatto, hanno avuto la consapevolezza che no, non si poteva incolpare lo scatenamento della natura o una cieca fatalità. E non si può morire con le infradito ai piedi, la vigilia di ferragosto. Loris Del Grande ha i capelli brizzolati e lo sguardo buono. Dei suoi sessant’anni ne ha trascorsi quaranta con la divisa da vigile del fuoco, da quando la indossò per la prima volta per il servizio di leva, nel 1978. Fra un mese sarà in pensione. Genova è stato probabilmente il suo ultimo servizio, se ne andrà con negli occhi una immagine di catastrofe. «L’area rossa è stata divisa in sette parti, quelli che chiamiamo ‘cantieri’. Prima cosa, raccogliere informazioni, capire cosa è successo, cosa stanno facendo gli altri, i colleghi, carabinieri, polizia, finanza, Protezione civile, Croce rossa e le altre croci della pubblica assistenza. Sul posto erano presenti almeno cento mezzi. Uno dei primi dati parlava di sessanta persone disperse. C’erano le immagini delle telecamere, ma chi poteva dire quante persone viaggiavano per ogni auto, una sola, più di una. Molti che erano scampati avevano tardato a rientrare, a informare a casa, si erano fermati anche solo perché avevano bisogno di bere qualcosa in un bar. Quando sono andato in tenda a riposare un po’ ho visto la mamma di Mirko, il dipendente dell’Amiu, l’ultima vittima recuperata. È rimasta lì fino a sabato, quando è stato trovato il corpo, sabato. Il padre non si è mosso da dove scavavano».

C’è solo la morte ma quelle macerie, quei blocchi informi, quei massi, sembrano difendere con cattiveria quello che hanno sepolto. Francesco Genovese, caposquadra del Gos, lavora con la cesoia montata su un escavatore. Originario di Reggio Calabria, è entrato nei vigili del fuoco nel 1992, per concorso. Ricorda ancora l’esame a Roma, all’Ergife, 120mila candidati per 5 o 6mila posti. «È stata molto dura. Era tutto concentrato lì e attorno lo scenario tranquillo della città, della periferia. Lavoravamo sempre con la speranza di trovare qualcuno vivo. Intanto ci chiedevamo come poteva avere ceduto una struttura così. Lavoravamo e sembrava che le macerie non volevano farsi stritolare». L’Usar Claudio Di Francesco è nei vigili del fuoco da 28 anni. «Appena arrivato ho dato una mano ai colleghi di Genova. C’erano due uomini feriti ma coscienti, sospesi nella loro auto sopra le macerie, a venti metri di altezza. Non ce la facevano più. Non si erano resi conto di quel che era successo, non potevano avere una visione del disastro. È stata la cosa più brutta in tanti anni di servizio. Ho visto intere famiglie morte nella loro quotidianità, la borsa con gli asciugamani da mare, quella con le pinne, il pallone da spiaggia. Camminavi e vedevi le scarpette da discoteca, le valigia, gli occhiali da sole, i giochi dei bambini. Era stato il passaggio improvviso dalla vita alla morte. Le auto non potevano più contenere niente di vivo: erano soltanto pezzi di lamiera. I colleghi di Genova erano già intervenuti in modo egregio. C’erano i vigili sub, con ancora le mute addosso, che tiravano fuori i feriti. Pioveva. C’era la paura che il torrente tracimasse».

Un vento leggero, una brezza lieve soffia su quello scenario di morte: si chiama solidarietà, fratellanza, riconoscenza. Da quando è diventato vigile del fuoco, nel 1991, Fabio Sartirana ha visto tutte le alluvioni, i terremoti in Umbria, sul Garda, all’Aquila, a Milano la strage all’aeroporto di Linate, il rogo nella camera iperbarica dell’ospedale Galeazzi, il crollo di viale Monza. «Il terremoto è un fatto naturale. Qui no. Su quel ponte ci siamo passati tutti fin da piccoli. Non ci volevo credere. Quando siamo partiti abbiamo detto alla mamma di Mirko che noi ce ne andavamo, ma gli altri rimanevano e le avrebbero restituito il figlio. Siamo arrivati a Milano e abbiamo saputo che lo avevano trovato. La gente di Genova è stata grande. I panettieri ci portavano focacce tutte le mattine. A mezzanotte arrivavano le pizze. Un signore si è presentato con una cesta di fichi della sua pianta. Andavamo nei negozi e ci regalavano gli spazzolini, i calzini. L’Ikea ha riaperto per permetterci l’allacciamento dell’acqua e farci usare i bagni. Si è staccato un tubo dell’escavatore e il proprietario è tornato nella sua ditta per fare il manicotto. Per le bombole di acetilene siamo andati a prendere il titolare di un’azienda in spiaggia a Noli. Si è messo subito a disposizione. ‘Belin, ci ha detto, è la prima volta che mia moglie non protesta e mi dice di andare pure’ . Una notte dormivamo in caserma. Abbiamo sentito cantare. Ma chi ha voglia di cantare in giornate come queste, ci siamo detti? Erano dei ragazzi in strada che ci cantavano il nostro inno: ‘Il pompiere paura non ne ha’. Hanno lasciato degli striscioni di ringraziamento». I vigili del fuoco tornano a Milano, dove i centralini del comando sono subissati di telefonate di ringraziamento. Una moto si affianca ai mezzi. Il ragazzo che la guida solleva il pollice della destra. Vuol dire ok, bravi, bravissimi. E soprattutto grazie.