
Maura Massimino primario all’Istituto dei Tumori
Milano, 7 ottobre 2020 - La legge Lorenzin è stata approvata dal Parlamento il 22 dicembre 2017 e pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 31 gennaio 2018. Ma non è ancora in vigore perché occorre che siano approvati i decreti attuativi. Quasi 3 anni di tempo non sono bastati per provvedervi.
Tre sono i benefici che la legge apporterebbe alla ricerca sulle malattie dell’età pediatrica. Innanzitutto si avrebbe una semplificazione della burocrazia e quindi un significativo risparmio di costi. Questo vale soprattutto per i trattamenti di prima linea o a basso rischio, quei trattamenti che hanno scarsa probabilità di avere effetti negativi sulla salute del paziente. In alcuni casi il costo dei protocolli accademici (i protocolli di ricerca) si dimezzerebbe. Un beneficio non da poco se si considera che la ricerca sull’oncologia pediatrica è trascurata due volte: non esiste una sovvenzione pubblica per i protocolli accademici e neanche le case farmaceutiche vi investono, a differenza di quanto avviene per le malattie dell’età adulta. La ragione è semplice: la ricerca in oncologia pediatrica non ha appeal dal punto di vista del profitto. I tumori pediatrici sono rari per definizione. Ogni anno in Italia si contano 2.500 casi: 1.700 sono i bambini che si ammalano entro i 14 anni di età e 800 quelli che si ammalano entro i 19 anni. Numeri modesti perché possa esserci convenienza a fare ricerca.
«Lo Stato e le case farmaceutiche ragionano sui numeri complessivi, non su un bisogno» sintetizza Maura Massimino, primario di Pediatria dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano. Poco sembra importare che 450 bambini muoiano ogni anno di tumore: più di uno al giorno. Ad oggi la ricerca è finanziata soprattutto da associazioni private, spesso da associazioni costituite da genitori che per un tumore hanno perso un figlio. Grazie a benefattori privati, il tasso di mortalità è diminuito: era al 50% nel 1975, è al 20% oggi. La riprova dello scarso appeal della ricerca in oncologia pediatrica è data dall’intervento dell’Unione Europea, che nel 2007 ha varato una legge che garantisce 6 mesi di royalties in più alle aziende farmaceutiche che portano a termine un “Pediatric Investigation Plan“ (Pip).
Secondo beneficio: la legge accelera la ricerca e l’immissione di nuovi farmaci nel circuito terapeutico perché assegna ad un unico Comitato bioetico nazionale, espressamente dedicato alle malattie dell’età pediatrica, il potere di autorizzare gli studi senza attendere i Comitati locali. Questo significa che una determinata sperimentazione può partire nello stesso momento in tutti i centri di ricerca interessati, anche se si trovano in regioni diverse. Oggi avviene che in un centro si parta prima e in altri dopo perché diversi sono i tempi e diverse le sensibilità dei Comitati locali. Un fatto che genera ritardi e disparità sociale nella possibilità del paziente di beneficiare di una sperimentazione.
Il terzo beneficio che la legge apporterebbe riguarda il coinvolgimento nel percorso terapeutico delle associazioni dei genitori dei pazienti e delle famiglie. Un coinvolgimento ritenuto necessario anche dai medici per capire quale sia l’esito delle terapie che le famiglie ritengono auspicabile, visto che non ci sono cure che diano la certezza della guarigione. «Lo standard terapeutico attuale non ci accontenta – spiega Massiminino – perché i pazienti o non guariscono o alla guarigione devono pagare un prezzo. Le cure attuali hanno un alto livello di tossicità e per questo hanno ricadute che i pazienti si portano dietro tutta la vita: infertilità, disabilità quali il ritardo mentale, insorgenza di secondi tumori. Ad oggi non abbiamo alternative ma sarebbe importante poter decidere insieme alle famiglie quale prezzo della guarigione è ritenuto accettabile». (2 – Continua)