Ramin Bahrami: "Milano mi ha regalato la possibilità di suonare e vivere di musica"

Il pianista Ramin Bahrami e la sua città d’adozione di MASSIMILIANO CHIAVARONE

Ramin Bahrami  nel cortile  del Conservatorio: è stato folgorato dalla musica  di Bach  fin da piccolo Il suo sogno  è ripetere  dal vivo alla Scala diretta da Chailly i concerti  che ha inciso  con lui

Ramin Bahrami nel cortile del Conservatorio: è stato folgorato dalla musica di Bach fin da piccolo Il suo sogno è ripetere dal vivo alla Scala diretta da Chailly i concerti che ha inciso con lui

Milano, 15 novembre 2015 - «Milano per me è una signora dolce, dall’aria un po’ mitteleuropea, che mi tende la mano». Lo racconta il pianista Ramin Bahrami.

Arriva qui a 11 anni con una borsa di studio? «Sì, era il 1987. L’assegno era finanziato a metà dall’Ambasciata italiana e da Italimpianti. Fuggivamo dall’Iran degli Ayatollah. Mio padre, ingegnere dello Scià Reza Pahlevi, fu messo in prigione. E quel viaggio in aereo Teheran-Milano fu proficuo».

Perché? «Durante il volo composi a mente un pezzo che poi eseguii per il saggio di ammissione al Conservatorio. Non avevo preparato nulla del programma previsto. Feci quella musica che mi ronzava nella testa. Ho imparato a suonare il pianoforte ascoltando Bach inciso da Glenn Gould. E i risultati vennero notati dall’allora direttore, Marcello Abbado, che mi disse: “Hai talento ma sei un disastro”. E mi affidò alle cure di Piero Rattalino».

In poco tempo la sua vita cambiò? «Sì, ci stabilimmo a Cernusco sul Naviglio, ospitati da un iraniano, ma abbiamo cambiato indirizzo almeno altre sette volte. C’era sempre qualche problema con i vicini che non sopportavano il pianoforte. Un anno dopo, nel 1988, andammo ad abitare in via Pellegrino Rossi a Milano. Lì arrivò la telefonata che ci comunicava la morte di mio padre. Io non dissi nulla, corsi alla tastiera e mi misi a suonare furiosamente. Il pianto arrivò dopo. Scoprii poi che nella sua ultima lettera mi scrisse: “Continua a frequentare i maestri occidentali. Bach non ti lascerà mai solo”».

E infatti ha esordito nelle sale da concerto a Milano a 17 anni. «Sì, debuttai al Teatro delle Erbe su invito di Antonio Mormone, fondatore della Società dei Concerti. Andò tutto molto bene e poco dopo mi esibii nella Sala Verdi del Conservatorio. Un concerto meraviglioso, con un programma che andava da Bach a Beethoven. Poi fui tradito dal nervosismo e dall’inesperienza: avevo notato due file vuote. Solo due. Pensare che la Verdi ha oltre 1.400 posti. Durante gli applausi chiesi a Mormone perché la sala non fosse piena. Lui non mi rispose ma non mi invitò più a suonare. Intanto la borsa di studio finì perché Italimpianti fu coinvolta in Tangentopoli. Mia madre, che non aveva mai lavorato, cominciò a darsi da fare anche con piccole mansioni. E invece grazie alla generosità di due grandi milanesi, Elisabetta Parodi e Paolo Bellasich, ho potuto continuare a studiare e mia madre ha smesso di lavorare».

Rattalino era severo? «Era capace di farti sentire una nullità con un solo sguardo. Ma mi ha dato molto. Come il Conservatorio dove ho potuto ascoltare i pianisti più grandi da Svjatoslav Richter ad András Schiff, con cui ho poi studiato a Imola».

Scommetto che è la via Conservatorio quella che preferisce? «Sì, in questa strada sono cresciuto, ci ho trascorso molti anni. Da ragazzino giocavo a nascondino con i compagni alla fine delle lezioni, oppure sgaiattolavamo nel cortile della Vittoria Colonna, la scuola vicina, per vedere le studentesse. Da adolescente passeggiavo in questa zona con le mie fidanzate, in particolare ne ricordo una che aveva 15 anni più di me ed era l’insegnante di italiano di mia madre. Anche se mi ero diplomato, quasi ogni giorno andavo al Conservatorio. E poi ho sempre ammirato i palazzi del quartiere, in particolare la Casa Campanini con le due donne che sovrastano il portone d’ingresso. In loro ho visto Milano. Questa città mi ha dato molta speranza e la possibilità di dedicarmi alla musica».

Qualche occasione musicale perduta c’è stata? «Sì, con Claudio Abbado, ma non a Milano. Mi aveva concesso un’audizione a Bologna, dove si trovava per un concerto. Ma io arrivai con il braccio ingessato. Mi ero fatto male qualche giorno prima. Lui mi disse stupito: «Ma cosa hai combinato?». Si vedeva che c’era rimasto male. Io per sdrammatizzare gli chiesi di autografarmi il gesso, ma lui rifiutò».

Progetti musicali che vorrebbe realizzare? «Suonare diretto da Riccardo Chailly alla Scala, ripetere dal vivo l’integrale dei concerti di Bach che ho inciso con lui. Sono sicuro che come direttore musicale, farà raggiungere all’orchestra della Scala il massimo splendore dal punto di vista tecnico-esecutivo e in più l’arricchirà della sua esperienza mitteleuropea».

Intanto ha appena inciso un altro disco bachiano? «Sì è L’offerta musicale (Decca) un lavoro che ha un po’ di quel senso di magìa e di stupore che mi ha dato Milano». di MASSIMILIANO CHIAVARONE mchiavarone@gmail.com

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