
Andrea Arcidiacono, professore di Urbanistica al Politecnico, dopo la cancellazione dei green di Porta Nuova "Serve equilibrio tra profitto e funzioni sociali: pensare a una città più collettiva è la ricetta per il futuro".
"Serve più equilibrio tra gli interessi privati e quelli pubblici e una ridefinizione di questi ultimi, con investimenti per la ‘città pubblica’ che vadano oltre l’area interessata dai grandi progetti urbanistici e coinvolgano le vere emergenze della città, a cominciare dalle aree più periferiche". Andrea Arcidiacono, professore di Urbanistica al Politecnico di Milano, specializzato in pianificazione urbana, territoriale e ambientale, prende spunto dalle ultime “amputazioni“ green dei grandi progetti cittadini (la Torre Botanica e l’avveniristica serra a scavalco di Melchiorre Gioia a Porta Nuova e la Foresta Sospesa nell’ex Scalo Romana) per allargare il discorso alla necessità di ripensare allo stesso concetto di rigenerazione.
Arcidiacono, l’impressione diffusa è che spesso i progetti che si aggiudicano grandi operazioni urbanistiche, quando passano dalla carta alla realtà la prima cosa che perdano siano gli elementi verdi, quelli che più interessano alla collettività. È solo un’impressione?
"Questi progetti sono firmati spesso da grandi studi internazionali: nel caso per esempio della Torre Botanica e del Ponte serra da Diller Scofidio+Renfro, lo stesso della High Line di New York. Le soluzioni progettuali più accattivanti e di maggiore impatto estetico servono anche per superare la concorrenza. La realizzazione di questi elementi si scontra poi però con problemi pratici, innanzitutto di costi. E quando l’operatore privato deve scegliere cosa salvare, sacrifica le parti meno redditizie. Che spesso sono, appunto, quelle “green“ o comunque quelle che riguardano gli interessi collettivi".
Come se ne esce?
"Ci vorrebbe più attenzione ai benefici collettivi di queste operazioni; la pianificazione urbanistica dovrebbe garantire maggiore equità nello scambio tra pubblico e privato. Un equilibrio che non sempre si riesce a realizzare, non soltanto a Milano".
Cosa frena una più equa distribuzione dei due fattori in campo?
"Le amministrazioni hanno di fatto poche risorse per governare questi processi e catturare una quota adeguata dei surplus realizzati. A iniziare da una valutazione più attenta dei costi, non solo attuali, e dei profitti che il privato sarà in grado di ottenere. Gli uffici tecnici dei Comuni hanno anche professionisti molto validi che però si trovano a gestire una moltitudine di questioni. Il problema però è anche un altro".
Quale?
"Che spesso si fa confusione tra riqualificazione e rigenerazione. Una cosa è riqualificare un edificio, o una serie di edifici, con criteri di sostenibilità ed efficienza più moderni, operazione comunque quanto mai indispensabile a Milano; un’altra è la rigenerazione urbana. Cioè dare nuova vita a porzioni di città. Un processo che è molto più complesso e sfidante. E che, appunto, mette al centro l’interesse collettivo. Il che significa, per esempio, utilizzare le risorse dei grandi progetti in zone di pregio per le aree più marginali, con spazi di maggiore fruibilità per i cittadini, aree verdi che permettano di affrontare le sfide del cambiamento climatico, ma anche interventi di edilizia sociale per affrontare la marginalizzazione delle periferie. In questo contesto la pianificazione può essere determinante: solo pensare a una città davvero collettiva previene i rischi della polarizzazione economica e sociale, fenomeno esploso negli ultimi anni a Milano, contestualmente alla nascita dei quartieri più esclusivi e attrattivi firmati dalle archistar".