
Un’immagine degli interni del palazzo di giustizia di Milano
Milano, 6 luglio 2025 – Tatuaggi sulle braccia che testimoniano la fede calcistica nerazzurra, il corpo scosso da tic e tremori dovuti alla tensione e all’astinenza. “Ci sono ricascato dentro con tutti i piedi, voglio solo andare via da Milano perché se rimango qui non riesco a uscirne”, spiega alla giudice un 25enne arrestato poche ore prima mentre spacciava cocaina per strada, con dosi nascoste nel calzino e altre nell’appartamento dove vive. “È un circolo vizioso – prosegue – e si finisce per perdere lavoro e affetti”.
La giudice, accogliendo la richiesta del suo legale, l’avvocato Robert Ranieli, concede gli arresti domiciliari, nella casa della madre e del fratello minore che “è un bravo ragazzo, diverso da me, non beve e non fuma”.
“Se ci mette un minuto di più del necessario per andare al Sert o si fa trovare ancora con un minimo di droga finisce in carcere – ammonisce la magistrata – e se deciderà di avviare un percorso terapeutico avrà da parte mia tutte le autorizzazioni necessarie”. Poi fissa l’udienza per il processo a carico del giovane, che ha già alle spalle una lunga serie di problemi con la giustizia.
Storie che si incrociano nell’aula delle direttissime del Tribunale di Milano, dove ogni mattina vengono portate davanti ai giudici le persone arrestate in flagranza nel corso della notte per reati meno gravi. Spaccio, furti, risse e aggressioni, maltrattamenti, resistenza a pubblico ufficiale, la vasta gamma di interventi di polizia, carabinieri e ghisa nelle notti milanesi. Svanite le nebbie notturne, riacquistata lucidità, gli indagati vengono interrogati dai giudici, che poi decidono sul loro destino nella roulette della giustizia: libertà, carcere, domiciliari o misure come l’obbligo di firma. Udienze dove la realtà di vite ai margini si mischia alla finzione, ai tentativi di giustificarsi o di fornire una versione edulcorata per alleggerire la propria posizione.
Viene accompagnato nell’aula affollata e senza finestre al piano terra del Palazzo di giustizia, in un giorno di luglio dalle temperature record, un nordafricano arrestato dalla polizia, perché era in possesso di sei grammi di cocaina. “Li ho comparati per strada in zona San Siro, erano per me, volevo festeggiare l’uscita dal carcere. Chi mi ha dato i soldi? La mia fidanzata”, risponde in arabo, con accanto il traduttore del Tribunale. “Con quelle dosi – risponde la giudice – sarebbe andato all’altro mondo”. Poi si scopre che, in realtà, il giovane, senza lavoro e senza permesso di soggiorno, era uscito dal carcere l’8 agosto 2022. “Dieci giorni fa ho finito di scontare gli arresti domiciliari – si corregge – ho comprato la cocaina perché volevo festeggiare”. Alle domande su chi gliel’ha venduta, le risposte sono vaghe: “A Milano si trova cocaina ovunque, basta andare per strada”.
La giudice, dopo aver convalidato l’arresto, applica la misura dell’obbligo di firma per quattro giorni alla settimana. E il nordafricano viene portato fuori dall’aula. Prende il suo posto, per l’interrogatorio, un altro egiziano, incensurato. Per lui, sorpreso a spacciare e arrestato dalla polizia al Giambellino, è la prima volta. Un triste “battesimo“, per un giovane arrivato in Italia da minorenne dopo il viaggio della speranza e la traversata del Mediterraneo, fino a un appartamento in via Odazio dove vive ammassato con altri connazionali.
“Sono in attesa della decisione della commissione per la protezione internazionale – racconta alla giudice – e intanto lavoro in un’impresa di pulizie con un regolare contratto. Guadagno 1000-1200 euro al mese, ma i soldi non bastano mai. La droga? Non era mia. Me l’ha data un marocchino e mi ha detto dove andare a consegnarla in via Giambellino. È la prima volta che lo faccio, ho sbagliato e chiudo scusa”. Resta con il fiato sospeso, in attesa della decisione sul suo destino. La giudice è clemente. Convalidando l’arresto, ordina la sua “immediata liberazione”, considerando il fatto che è incensurato. Lui sorride e ringrazia, poi viene accompagnato fuori dal Tribunale. Una lunga serie, in questo giro di udienze nel day by day del Tribunale, di reati legati allo spaccio di cocaina, che invade le strade di Milano. Pusher che nella maggior parte dei casi sono tossicodipendenti e mostrano i segni dell’astinenza, oltre che dei sempre più frequenti squilibri psichici.
L’interrogato successivo è un italiano. “Sono nato e cresciuto a Milano”, rivendica con orgoglio. Alza il piede per mostrare il calzino dove, al momento dell’arresto, nascondeva la bustina con la cocaina. “Il resto era in casa. I soldi? 100 euro li ho vinti con il totocalcio, gli altri erano il provento della vendita della droga. Sono ricaduto nel giro, ci sono ricascato dentro con tutti i piedi. Se resto a Milano non ne esco più, voglio andare via”.
Il pm chiede il carcere. Il suo legale propone, invece, i domiciliari. “La mamma è stata sentita dal Sert – spiega – ed è disponibile ad accoglierlo, con il fratello che ha 19 anni”. Fuori dall’aula c’è la sorella dell’indagato, venuta per incontrarlo. La giudice, concedendo i domiciliari, lo inviata a riavviare quel percorso terapeutico per uscire dalla tossicodipendenza che è stato interrotto. “Da parte mia – sottolinea – avrà tutte le autorizzazioni necessarie”.