Il punto di svolta tra la fine degli anni ’90 e il 2000 quando, per un incrocio di diversi fattori, si è smesso di costruire quartieri di edilizia pubblica. Si è creata una "polarizzazione" fra storici abitanti e una larga fascia di nuovi inquilini con gravi situazioni di disagio e bassissimi redditi che è "l’esito di un sistema che ha smesso di immettere nuove case pubbliche e dove l’esiguo turnover di unità immobiliari non basta a rispondere ad un bisogno crescente". Raffaella Saporito, professoressa della Sda Bocconi, ha curato uno studio dell’ateneo e del Politecnico, finanziato da Fondazione Cariplo, che si è focalizzato su due quartieri della città - Stadera e San Siro - dove sono state svolte oltre cento interviste fra persone che abitano nei complessi di edilizia pubblica.
Che cosa è emerso?
"Emerge che, in contesti di disagio sociale, la relazione con il personale operativo è tra i fattori generatori di valore. Quella del custode spicca come una figura di riferimento, si evidenza il valore sociale generato dai servizi abitativi. Non basta dare una casa, ma servono servizi a 360 gradi. Il modello che funziona è quello che si basta su servizi di prossimità e figure di presidio, a partire dalla presenza del custode, che svolgono una funzione di antenna sociale e di garanzia del rispetto del patto di convivenza, contribuendo alla riduzione del conflitto. La presenza di custodi e figure di riferimento come i community manager introdotti da Aler a San Siro o degli operatori sociali delle cooperative Dar=Casa e del Ccl a Stadera emerge come elemento cruciale per la qualità della vita negli alloggi".
Come è cambiata la composizione sociale delle case pubbliche?
"Si è passati negli anni dalla “working class“ proveniente da altre regioni d’Italia a fasce con fragilità crescenti. I nuovi abitanti sono spesso stranieri, più giovani, inseriti in nuclei familiari più numerosi e maggiormente esposti a rischi di povertà. Si è creata quindi una frattura generazionale tra i nuovi inquilini e gli inquilini storici, che ora sono pensionati che nel 40% dei casi vivono soli".
I progetti di “social housing“ sono una soluzione valida al problema della casa?
"È una soluzione interessante, ma si rivolge a fasce diverse, la nuova “working class“, rispetto a quelle che ora possono accedere all’edilizia residenziale pubblica. Sono bisogni diversi, che vanno soddisfatti con soluzioni concrete".
Bisognerebbe quindi tornare a costruire case popolari, dopo decenni di disinvestimento?
"Sono scelte che spettano alla politica, noi abbiamo portato il nostro contributo al dibattito con uno studio sui modelli di gestione che possono favorire l’inclusione sociale".
Andrea Gianni