
Libero Temolo, partigiano ucciso il 10 agosto 1944
QUINDICI VITE sacrificate per la libertà in quel tragico giorno, il 10 agosto 1944, a Piazzale Loreto. Vogliamo ricordarli tutti: Antonio Bravin, Giulio Casiraghi, Renzo del Riccio, Andrea Esposito, Domenico Fiorani, Umberto Fogagnolo, Giovanni Galimberti, Vittorio Gasparini, Emidio Mastrodomenico, Angelo Poletti, Salvatore Principato, Andrea Ragni, Eraldo Soncini, Libero Temolo e Vitale Vertemati. Furono prelevati all’alba dal carcere di San Vittore dove erano rinchiusi per essere sospettati di far parte a vario titolo della Resistenza e portati a piazzale Loreto. Qui un plotone della legione Muti, per ordine della sicurezza nazista, li fucilò. Alcuni giorni prima si era verificato un attentato ad un camion tedesco parcheggiato in viale Abruzzi, dove però non morì nessun tedesco ma persero la vita sei passanti, feriti in undici. Per ricordare il 71° eccidio di Piazzale Loreto oggi le associazioni della Resistenza, i familiari dei caduti e le istituzioni si ritrovano in due momenti: alle 10 avverrà la deposizione di corone alla stele dei 15 Martiri, saranno presenti Massimo Castoldi, nipote di Salvatore Principato, il sindaco Giuliano Pisapia e il vicepresidente della Regione Mario Mantovani. In serata, alle 21, sono previsti gli interventi di Sergio Temolo, Danilo Margaritella, segretario generale della Uil e Roberto Cenati, presidente Anpi.
Milano, 10 agosto 2015 - «Per anni ho rifiutato l’idea della sua morte. Ho preferito tacere. Pensavo che fosse un fatto privato, un dolore acuto ma solo mio. Poi ho capito. Troppo grande era la ferita, lui era tutto quello che avevo e questa specie di freddezza che mi ha avvolto per anni come in un bozzolo, non è stata che una forma di protezione».
Sergio Temolo, 85 anni, è il figlio, unico, di Libero, operaio alla Pirelli, uno dei martiri di piazzale Loreto, ucciso dai nazifascisti insieme ad altri 14 partigiani il 10 agosto del 1944, settantuno anni fa. Testimoniare è sempre un’esperienza dolorosa ma per Sergio, una vita passata come tecnico amministrativo nel quotidiano “L’Unità“, alla fine è stata una sorta di liberazione. Per anni, racconta, «ho evitato di passare in piazzale Loreto». Una ferita che ogni anno si riapre.
Che cosa ricorda di quel 10 agosto 1944? «Non c’ero. Ero ad Arzignano, nel paese natale di mio padre, in Veneto. Dopo il suo arresto i miei zii paterni mi mandarono via per sicurezza. L’ho saputo solo in ottobre, che mio padre era stato fucilato, passando lì davanti alla staccionata, insieme con un conoscente di famiglia che mi stava accompagnando a casa, in via Casoretto al 40. È stato un colpo al cuore. Avevo 14 anni».
Suo padre nel tragitto da San Vittore a piazzale Loreto aveva capito che andava a morire e tentò di scappare... «Fu raggiunto da una sventagliata di mitra e cadde subito a terra. Il suo compagno Soncini fece qualche metro in più, fu raggiunto nel sottoscala di una casa vicina e fatto fuori sul posto»
Libero diffondeva stampa clandestina, lo sapevate in famiglia? «Ma faceva anche altro. Comunque operare nella Resistenza era un fatto segreto e mio padre non ne parlava mai. Ma sapevo perché me li aveva mostrati, che avevamo delle riviste e documenti compromettenti nel sottofondo di un cassetto, carte che dopo l’arresto di mio padre, il 21 aprile 1944, avvenuto per una soffiata, abbiamo distrutto. Per tutto il resto non mi facevo molte domande, mi bastava stare con lui, condividere quei pochi momenti di complicità. L’ho aiutato: mi diceva “preparati, dobbiamo andare da Nino il sarto per un nuovo vestito, in via Catalani”. Ma Nino Lamprati era una copertura, come mio padre anche lui era responsabile del settore Venezia per il Partito comunista. Mi infilavo, senza leggerli, sotto la maglia e nei pantaloni, fogli e foglietti e lo seguivo, stando attento a seguire tutte le sue raccomandazioni. Per me era un’avventura».
Il suo pensiero prima della fucilazione è andato a lei... «Sì...“raccomando Sergio, educatelo”. E poi ancora: “Temolo, coraggio e fede, sempre fede”. Era un idealista, cresciuto dal nonno fornaio a pane e comunismo, il suo soprannome nel giro degli amici era Lenin. Una famiglia affiatata di undici figli. Io ho perso il mio unico oggetto d’amore, mia madre mi aveva abbandonato subito dopo la nascita e io sono cresciuto con la matrigna con la quale non ho mai avuto un grande rapporto. Dopo la Liberazione non ne ho saputo più nulla... e comunque quel giorno lo ricordo in modo tragico».
Che cosa le è rimasto dell’insegnamento di suo padre? «Non mi faceva lezioni. Ma il suo esempio e la dirittura morale mi hanno sempre accompagnato nella vita. È morto perché credeva in un ideale di libertà. Ecco perché dico che Milano fa ancora troppo poco per onorare una pagina della sua storia drammatica. Ora abbiamo la Casa della Memoria, ma va riempita di contenuti. È necessario sviluppare dei progetti e coinvolgere anche quella parte della città che allora come oggi non ha capito quello che veramente accadde in quegli anni terribili. Ideologia e slogan non permettono di capire. Ed è quello che i giovani oggi ci chiedono».