
Strage di piazza Fontana
Milano, 13 dicembre 2019 - Gino Morrone è un giovane cronista, al ‘Giorno’ da pochi anni. A Milano è il 12 dicembre 1969. "Ero vestito che potevo sembrare un carabiniere in libera uscita o un funzionario di polizia: grisaglia, camicia bianca, cappotto blu. Il mio matrimonio era fissato per il 29 dicembre. Avevo pensato di andare a scrivere le buste delle partecipazioni nella sala stampa dei carabinieri, in via Moscova. Era nuovissima, comodissima, con le poltrone e una quarantina di telefoni e soprattutto non ci andava mai nessuno. Avevo scritto i primi indirizzi quando uno dei telefoni ha iniziato a squillare. Non ho risposto. Poco dopo un altro telefono. Ho sollevato la cornetta. Una voce concitata: “Capitano Ciancio, capitano Ciancio”. Ciancio era il responsabile del pronto intervento.
"Alla Banca dell’Agricoltura in piazza Fontana è esplosa una bomba. Ci sono dei morti". Ho abbassato la cornetta senza dire una parola. Mi sono precipitato in piazza Mirabello ai taxi". "Sono sceso in piazza della Scala. Ero giovane, sportivo, ho raggiunto piazza Fontana di corsa. All’ingresso della banca c’era il capo degli artificieri. Mi conosceva. ‘Dottore, dottore, venga’ e mi ha fatto entrare. Ricordo la prima cosa che ho visto, la voragine provocata dall’esplosione, e la prima cosa che ho pensato: ‘Quanti morti avrà fatto?’. Vedevo dovunque corpi, brandelli di carne, di pelle, ho avuto l’impressione che ci fossero persino dei frammenti di cervello Ricordo quel ragazzo, Enrico Pizzamiglio, che veniva sollevato e si vedeva che aveva una gamba maciullata. Mi spostavo qua e là. Qualcuno mi guardava con un po’ di sospetto, ma nessuno mi ha detto niente, forse per via dell’abbigliamento da poliziotto in borghese. Cercavo di contare i morti. L’ho fatto almeno trenta volte".
«Dovevo ancora avvertire in redazione. Sono uscito. C’era una farmacia e la titolare, molto gentile, mi ha permesso di telefonare. Ho chiamato la cronaca: “Mandate più gente che potete. Io sono solo. Non fanno entrare più nessuno’. Ancora non sapevano. Angelo Rozzoni, il vice direttore del ‘Giorno’, si è piazzato nel cortile di via Fava (dove aveva sede il giornale) e via via che arrivavano i redattori li spediva in piazza Fontana, anche quelli dello sport e degli spettacoli. ‘E cercate Morrone’, era l’ultimo ordine. Mi sono trovato a fare il capo redattore sul campo, assegnavo i compiti. Quando sono rincasato mia suocera mi ha fatto togliere le scarpe per lavarle: erano zuppe di sangue. La mattina dopo sulla prima pagina del ‘Giorno’ c’era un riquadro con i nomi dei giornalisti che avevano scritto. Tutti in ordine alfabetico, tranne il primo nome: il mio. Rozzoni mi ha fatto seguire la strage per giorni e giorni. Ricordo il tassista Rolandi. Ogni volta che lo intervistavo ripeteva: ‘L’ho detto a dieci persone, io Valpreda non l’ho portato’. Ricordo un colonnello dei carabinieri, furioso perché non lo ascoltavano quando sosteneva che Valpreda non c’entrava. Ma era così. Si voleva dimostrare che il colpevole era stato trovato e soprattutto che era un anarchico".