
Patteggia per peculato 2 anni di reclusione con la pena sospesa l’ex senatore Paolo Romani. Un anno e 9 mesi, sempre con la sospensione condizionale della pena, sono andati invece all’imprenditore Domenico Pedico. Ad accordare i patteggiamenti concordati con la Procura di Monza è stata la giudice per le udienze preliminari del Tribunale di Monza Silvia Pansini, che ha anche disposto a carico di Romani la confisca dei quasi 345mila euro che erano già stati sottoposti al sequestro preventivo, eseguito dai finanzieri del Nucleo speciale di polizia valutaria di Milano. Il patteggiamento dell’ex senatore è stato calcolato in continuazione con un altro patteggiamento per peculato a 16 mesi nel 2014 per avere dato in uso alla figlia un telefono cellulare del Comune di Monza, dove era assessore. Secondo l’accusa, rappresentata dalla pm monzese Franca Macchia, l’ex senatore poi passato a ‘Cambiamo!’, tra il 2013 e il 2018, quando era a capo del gruppo parlamentare del Popolo delle libertà, "avendo la disponibilità di somme di denaro giacenti" sul conto del partito presso una banca di "Palazzo Madama e intestato al gruppo Forza Italia e con delega a suo favore, si appropriava dell’importo complessivo di 83mila euro", tramite tre assegni emessi a sua firma "e a sé intestati" e depositati sul proprio conto corrente a Cinisello Balsamo.
I finanzieri hanno ricostruito anche il passaggio di oltre 180mila euro sul conto dell’imprenditore Domenico Pedico e su quello della sua ‘CarontGraft D&K srl’, attualmente in liquidazione. Denaro, secondo l’accusa, dirottato da Pedico sui suoi conti personali e poi restituito a Romani. L’ex senatore avrebbe inoltre utilizzato 95mila euro circa per spese personali e per il pagamento di prestazioni o professionisti non conforme al regolamento del Senato della Repubblica. Il sequestro preventivo dei beni era scattato lo scorso ottobre quando i finanzieri avevano bloccato somme giacenti su due conti correnti intestati all’ex senatore e un immobile di proprietà a Cusano Milanino. Poi la richiesta di rinvio a giudizio. La difesa di Romani ha ritenuto “opinabile“ la questione in quanto prima dell’avvenuta regolamentazione questi fondi "non erano assoggettati ad alcuna rendicontazione". Lo stesso Romani, che si era offerto di restituire le somme, ha sostenuto che, come capogruppo del Senato per FI, si è trovato "a svolgere compiti di raccordo molto onerosi anche sotto il profilo delle spese necessarie a questa attività" e di avere agito in buona fede "nella convinzione di utilizzare somme che erano nella mia personale disponibilità, utilizzando assegni quindi pagamenti tracciabili".
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