
Berlinguer a Sesto con gli operai nel 1980
Sesto San Giovanni (Milano), 21 gennaio 2021 - Questo articolo è contenuto nella newsletter "Buongiorno Milano". Ogni giorno alle 7, dal lunedì al venerdì, gli iscritti alla community del «Giorno» riceveranno una newsletter dedicata alla città di Milano. Per la prima volta i lettori potranno scegliere un prodotto completo, che offre un’informazione dettagliata, arricchita da tanti contenuti personalizzati: oltre alle notizie locali, una guida sempre aggiornata per vivere in maniera nuova la propria città, consigli di lettura e il commento di un ospite. Per ricevere via mail la newsletter clicca su www.ilgiorno.it/
La chiamavano "Stalingrado d’Italia". All’anagrafe, Sesto San Giovanni. Città della cintura Nord di Milano, 81.822 residenti all’ultimo censimento, per quasi tutto il ‘900 è stata una delle più importanti concentrazioni operaie del mondo. Città Medaglia d’Oro della Resistenza, simbolo dello stato sociale con il welfare aziendale, i circoli ricreativi, i villaggi, la medicina del lavoro. Una città dove "comunità" per quasi un secolo ha fatto rima con fabbrica e con partito. E il partito era solo uno: il Pci. "Ormai, è più il tempo che non siamo Stalingrado rispetto a quello in cui Sesto lo era", dice Giorgio Oldrini, il “sindaco cubano” per la sua esperienza di inviato per il quotidiano (comunista, ça va sans dire) L’Unità.
Oggi Sesto si ritrova nel bel mezzo del centenario del Pci sotto la bandiera della Lega, che qui governa insieme a Fratelli d’Italia. Infatti il centrodestra nel 2017 ha spazzato via 72 anni di egemonia della sinistra, trionfando con Roberto Di Stefano, il compagno della pasionaria prima di Forza Italia, ora della Lega, Silvia Sardone.
Di Stefano, eletto con il 58.63% dei voti al ballottaggio, ha fatto crollare il fortino. Segno che la fu “città rossa” per eccellenza negli anni ha cambiato profondamente pelle. A partire dalla toponomastica, dove oggi puoi trovare "via Bettino Craxi, Statista" nel centro storico e i "giardini Gianfranco Miglio" al confine con Milano. Solo pochi anni fa, sarebbe stata una bestemmia per la storia della città. Le grandi fabbriche, dove si muoveva un sindacalista come Antonio Pizzinato, non ci sono più. Restano invece enormi aree industriali vuote (Breda, Marelli, Falck, le più grandi d’Europa) e cattedrali archeologiche come il Carroponte. Nel frattempo sono arrivate in città multinazionali come Heineken, Coca Cola, Campari. Nel centenario, il Pci i suoi “nipotini” potrebbe radunarli tutti in una sala. Perché i circoli dei quartieri, tra affitti troppo onerosi da sostenere e mancanza di iscritti, hanno tirato giù molte saracinesche e ad avere la tessera del Pd sono rimasti poco più di 200.
«Da segretario della Federazione Giovanile avevo mille iscritti, 1.500 alla sezione del centro...". Quasi tutti spariti. Giuseppe Carrà fu segretario di comprensorio nel ’52 con 18.200 tessere, poi fu sindaco, senatore e fu quello che, dalla sede del Pci, con un discorso solenne sciolse il nodo su Libero Biagi, che da socialista diventò sindaco, ruolo fino allora ricoperto dai comunisti. "Il Pci è stato un’esperienza collettiva. Non solo perché era una famiglia, tanto che molti trovarono moglie o marito. Ti dava un’idea del mondo. Facevi manifestazioni per il Congo, il Mozambico, andavi al Festival mondiale della gioventù in Ungheria – ricorda Oldrini –. Una volta eravamo in Duomo a manifestare contro la guerra in Vietnam. Il gruppo si sciolse, mi girai e vidi un corteo immenso di Onda Verde, Green Wave, e pensai ‘Questi ci spazzeranno via dalla storia’. Oggi sembra il nome di uno shampoo. È il tempo che fa passare tutto, anche grandi partiti, perfino alcuni Stati che oggi non esistono più...".