Alexandro Maria
Tirelli*
La privazione di momenti e spazi di affettività con la moglie o
con il marito, imposta dall’ordinamento italiano ai reclusi delle
sue carceri, deve ritenersi una violazione ingiustificata del diritto. Poiché non vi è dubbio che
l’attività sessuale faccia parte del ciclo vitale dell’uomo, inibirla e interromperla può evidentemente ledere l’integrità e la salute, tutelate dall’articolo 32 della Costituzione, di chi ne sia privato. L’annichilimento di sessualità e affettività in carcere contribuisce anche alla manifestazione di atti di autolesionismo e suicidio fra i carcerati. Questo avviene più sovente fra i soggetti condannati a pene detentive lunghe, così che la privazione di una sessualità condivisa con un partner possa altresì ritenersi, in taluni casi, vera e propria lesione dello scopo rieducativo e risocializzante che, ai sensi dell’articolo 27 della Costituzione, la pena deve avere. Gli Stati generali dell’esecuzione penale, nel 2015, a seguito dell’ennesima condanna pronunciata dalla Corte europea dei diritti umani nei confronti dell’Italia, hanno proposto l’introduzione dell’istituto della visita in forma riservata, senza cioè alcun controllo audiovisivo, nelle cosiddette stanze dell’affettività. Il progetto è stato però incomprensibilmente accantonato nel 2018, con una riforma dell’ordinamento che si è limitata a dire che i luoghi adibiti ai colloqui dovrebbero garantire “ove possibile, una dimensione riservata”. Ci rivolgiamo al Parlamento affinché si faccia carico di una proposta di legge che, approfittando della riforma Cartabia, integri finalmente la possibilità per i detenuti di beneficiare di concreti momenti di affettività.
*Presidente
Camere penali del diritto
europeo e internazionale