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Milano, 23 luglio 2021 - "Io aspetterò con pazienza, come ho fatto con Ivana (la ex moglie, ndr.) a prendermi le mie soddisfazioni". Un messaggio "agghiacciante" secondo i giudici, visto il trattamento che l’uomo aveva riservato all’ex consorte, una volta mandata in ospedale a calci, pugni e morsi, un’altra tamponata con il suv in modo che l’auto di lei si cappottasse. Ma per Alessandra Cità, 47enne tranviera Atm, l’attuale compagna che dopo dieci anni aveva però deciso di lasciarlo, il coetaneo Antonio Vena aveva in mente di prendersi una "soddisfazione" anche maggiore. Infatti una sera di aprile del 2020 aspettò che lei s’addormentasse, imbracciò un fucile a pompa e le sparò nel letto uccidendola. È stato condannato all’ergastolo tre settimane fa, l’uomo di origini palermitane che dopo l’omicidio avvenuto nella villetta a schiera di lei, a Truccazzano, andò a consegnarsi ai carabinieri. Ma nelle motivazioni della condanna appena depositate, i giudici della Corte d’assise (presidente Ilio Mannucci Pacini, estensore Ilaria Simi), spiegano perché non hanno creduto alla versione del delitto d’impeto e non hanno concesso a Vena le attenuanti generiche, sposando invece la tesi della premeditazione dell’omicidio. Già quel messaggio whatsapp spedito alla vittima appena pochi giorni prima ("io aspetterò con pazienza") è un indizio, per la Corte. E poi i giudici non hanno creduto affatto alla versione di lui, che ha detto di aver preso il fucile custodito insieme ad altre armi in un armadietto blindato, mentre la casa era già al buio. "Non è credibile che avesse recuperato le armi al buio quella sera (...) del tutto implausibile che Vena avesse contato di poter aprire al buio quella serratura dell’armadietto blindato". Molto più probabile, per la Corte, "che Vena avesse prelevato le armi in precedenza e le avesse nascoste in preparazione del delitto". E ci sono inoltre quella porta finestra che dava sull’esterno e il basculante del garage che Vena “sigillò“ con del fil di ferro quella sera, offrendo poi strane e confuse spiegazioni del suo gesto, che invece per la Corte aveva un motivo preciso: evitare che la sorella della vittima e il fidanzato, che abitavano a cento metri e sapevano delle tensioni fra i due , "fossero avvisati dalla vittima nel caso di un probabile litigio (come in effetti avvenuto) e potessero decidere di intervenire senza preavviso per garantire la sicurezza di Alessandra". Omicidio premeditato, dunque, "compiuto come punizione estrema , in tutti i sensi devastante, per una ingiustificata pretesa di possesso esercitata con violenza, ovvero per ragioni che possono considerarsi abbiette". Quanto alla mancata concessione delle attenuanti generiche, anche se Vena non aveva mai aggredito Alessandra in precedenza, però "l’aveva più volte minacciata e più volte pervicacemente infastidita". E per di più aveva "già tenuto comportamenti estremamente gravi di prevaricazione ed offesa nei confronti della ex moglie". mario.consani@ilgiorno.net