ANNAMARIA LAZZARI
Cronaca

Dopo 43 anni chiude il macellaio. Con una poesia

Valentino Farina: "Mia moglie in pensione e mia figlia in cattedra. Senza donne nella vita non posso andare avanti..."

A Valentino Farina, 69 anni (Newpress)

Milano, 28 luglio 2017 - Non assomiglia, neppure lontanamente, all’«osceno» personaggio del libricino erotico di Alina Reyes (Il macellaio, 1988) ma piuttosto ad un poeta, Valentino Farina. Del tipo romantico, come il nome suggerisce. Seguace della religione del lavoro, da vero milanese. Valentino, 69 anni, per quasi mezzo secolo è stato il macellaio di Porta Romana. Il 14 luglio ha chiuso per sempre la claire del suo negozio di viale Sabotino 38. La signora Ciani, acquirente fedelissima, ha pianto. Valentino ha pensato di ringraziare lei e tutta la sua clientela con un componimento di 14 versi in rima baciata che campeggia tuttora sulla saracinesca: «Dopo 43 anni in vostra compagnia è arrivata l’ora che vada via. La pensione ora mi aspetta il tempo passa e va di fretta (…) Ma parlando seriamente vi sarò sempre riconoscente e per l’affetto dimostrato ve ne sarò infinitamente grato».

Figlio di agricoltori, Farina è ultimo di tre fratelli, tutti macellai. Dopo essersi fatto le ossa in famiglia per quasi dieci anni, avviò anche lui una sua attività, rilevando una vecchia macelleria. Correva l’anno 1974.

Come andò?

«Maluccio. Il primo giorno feci solo 7mila lire di incasso. La concorrenza era forte: nel raggio di 500 metri c’era una decina di macellerie. Quando iniziai avevo come assistenti gli ex dipendenti: un uomo di 80 anni e una cassiera di 70, ma non ingranavano troppo. Mio fratello mi disse: “Se vuoi avere successo devi farti aiutare da tua moglie Cesarina”. Lei si licenziò dal suo lavoro da impiegata alle Generali per seguirmi in questa mia avventura. Senza di lei non ce l’avrei fatta...».

Quante ore lavoravate?

«Tante. Si iniziava alle 7 del mattino, si mangiava qualcosa veloce nel retro alle 13 e si finiva sempre dopo le 20,30. La domenica andavo in giro per allevamenti in Piemonte, per acquistare capi di razza Fassone, la migliore carne in Europa. Le mucche le facevo macellare a Milano, in viale Molise».

Quando si diffuse l’allarme mucca pazza, all’inizio del Duemila, subiste un tracollo?

«Al contrario. La gente era venuta a sapere che noi vendevamo carne italiana al 100% e incrementammo il fatturato».

Come capire se la carne è buona?

«Assaggiandola».

Indizi visivi?

«Quella bovina non deve essere di colore rosso acceso. E la carne bianca del pollo deve tendere al giallo, se l’animale è nutrito in modo sano con il mais».

Come è cambiata la clientela in oltre 40 anni?

«All’inizio il nostro target erano le famiglie. Negli anni ’70 le donne avevano tempo e voglia di cucinare bolliti, arrosti, spezzatini. Ricordo che le frattaglie non bastavano mai. Dopo gli anni ’90 gli acquirenti hanno cominciato a preferire piatti pronti: polpette o bistecche già impanate. È cambiato anche l’approccio con la gente. I miei clienti storici si fidavano ciecamente di me: c’era rispetto reciproco. Negli ultimi anni, invece, entravano in negozio anche persone presuntuose. Pensavamo di insegnarmi il mestiere perché avevano letto su Internet...».

È per colpa degli arroganti digitali se ha deciso di chiudere?

«No. Il fatto è che mia figlia che, negli ultimi dieci anni mi ha dato una mano al posto di sua madre, ha superato il concorso del Miur e sarà da settembre un’insegnante di ruolo in una scuola primaria. Senza il supporto delle donne della mia vita non potevo più andare avanti».