L’abbandono e quell’imprinting positivo perduto

Maria Rita

Parsi

Ormai è l’ombra della culla a pesare sul cuore degli adulti. La culla che non si riempie più nei paesi del benessere. Penso all’Europa, all’Italia dove paradossalmente le popolazioni invecchiano affidando soprattutto ai figli degli immigrati il compito di popolare le loro Nazioni, penso al paradosso di 11 milioni di bambini che ogni anno muoiono per fame e malattia e uno su dieci non riesce a raggiungere vivo il quinto anno di vita. E penso che al “popolo dei bambini” ogni anno sterminato si contrappone la richiesta, in crescita, di coppie sterili che ricercano un figlio a tutti i costi (e la ricerca scientifica insegue il loro incomprensibile desiderio, al “limite della bioetica”). E penso ai milioni di bambini affamati che crescono soli, circondati dalla violenza. E penso alla triste ombra che grava ancora sugli Yaomani, dove se il neonato è deforme, la madre provvede alla sua soppressione e in caso di parto gemellare sopprime il soggetto più debole o, in caso di nati sani, è la femmina ad essere sacrificata perché il secondo gemello non potrebbe essere allattato dalla madre, costretta a portare sulla schiena il neonato superstite nel suo lungo lavoro. È molto difficile per noi occidentali penetrare in una simile mentalità, ci sembra fuori di ogni logica, così come oggi ci sembra fuori di ogni logica che un bambino venga abbandonato nella versione moderna dell’antica Ruota. Ma chi erano questi bimbi? I figli della miseria, delle povere contadine che se fossero rimaste a casa ad allattare non sarebbero potute andare in campagna a lavorare per sostenere il resto della famiglia,i figli illegittimi che la società di allora non accettava, i figli delle prostitute... E allora penso a quelle madri costrette ad abbandonare oggi la loro creatura, a quante volte forse avrebbero voluto guardarla negli occhi, ascoltarla, soccorrerla, coccolarla, accarezzarla. E penso che questi bambini abbandonati hanno perso la più grande occasione della loro vita, l’amore che non hanno avuto. Perché l’amore lascia nelle persone ciò che Janov definisce ”un imprinting positivo” che rende sicuri e facilita la sopportazione ed il superamento del dolore; esso è l’ingrediente principale della nostra evoluzione come persone, in grado di fornirci sicurezza, forza interiore e benessere per tutta la vita. Ognuno di noi riceve, nella vita, una sua “educazione sentimentale”, una sorta di vera e propria “alfabetizzazione” senza la quale le emozioni si mischierebbero in una sensazione confusa e diffusa di sofferenza, paura e angoscia. Rappresenta la forza in cui affondano le radici il proprio benessere fisico, quell’energia straordinaria nella quale può prendere forma il nucleo della nostra identità più profonda e può venire appresa la capacità tutta umana di produrre nuovi legami ed affetti veri, i quali metteranno la persona amata nella migliore condizione di riprodurre e di generare, a sua volta, altra vita, altro benessere, altro amore.

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