Bruna Carbone e le nozze combinate: "Sono scappata a Milano e ho trovato l’emancipazione"

Il papà voleva sposasse un compaesano che si era sistemato a Torino, lei desiderava altro così prese un treno e iniziò una seconda vita

Bruna Carbone

Bruna Carbone

Sognare ad occhi aperti capita a tutti, vivere ad occhi aperti capita solo ad alcuni. E a Bruna Carbone è capitato. Nata in Puglia, a Spinazzola, 88 anni fa, la sua è la storia di una donna che si è rifiutata di guardarsi con gli occhi del suo tempo e ha voluto cercare uno specchio diverso attraverso il quale realizzare l’immagine di se stessa che più sentiva appartenerle. E quell’immagine l’ha vista riflessa per la prima volta sul finestrino del treno che dalla Puglia la stava portando a Milano, in quella che sarebbe stata una data spartiacque della sua vita: il 23 ottobre 1963. È a mezzanotte di quel giorno che Bruna arriva in stazione Centrale. Nel petto le risuonava ancora l’orgoglio, e nelle orecchie il suono, delle parole rivolte al papà, prima di partire: "Non sono una cavalla in vendita".

Così aveva risposto Bruna al padre che, come ancora in uso in quegli anni, voleva convincerla a sposare un compaesano che nel frattempo si era sistemato a Torino. Un matrimonio combinato. Già decisa anche la dote. Il papà di Bruna, del resto, era un proprietario terriero di buon successo a Spinazzola, riforniva i negozi di olio e vino, farina e mandorle. Ma lei in testa aveva tutt’altro: "A Milano volevo prima di tutto rendermi indipendente. Se poi sarebbe arrivato anche l’amore, bene". L’amore lei lo aveva già conosciuto. Ma ad impedirle di viverlo per davvero erano stati proprio gli occhi del tempo, gli occhi coi quali, allora, si guardava alle ragazze madri e ai loro figli.

"A 22 anni, molto prima di lasciare il mio paese, mi ero innamorata di Censino – racconta Bruna –, ma la mia famiglia ha sempre osteggiato questa relazione. Il problema era che Censino era figlio di una madre sola, una donna senza marito. E questo per la gente del paese era motivo di disonore. Così io, in quegli anni, ero tenuta ai domiciliari". Eppure Censino non era un estraneo, anzi era uno di famiglia, era amico del marito di una delle cinque sorelle di Bruna, lei se l’era visto entrare in casa per questo motivo. Ma da quel momento, da quella prima volta in cui si scelsero con la forza e il pudore dello sguardo, nulla fu più casuale: "Censino cercava pretesti per venire a casa mia, io ero costretta a nascondermi perché nessuno in famiglia appoggiava quella frequentazione". Come provare a fermare il vento con le mani: "Non potendo corteggiarmi in paese, lui mi aspettava al Bar Zaccaria di Altamura, dove io andavo ogni tanto con le mie sorelle. Per non farsi vedere da loro, entrava in quel bar da un ingresso secondario", ricorda Bruna spalancandosi in un sorriso.

"Non ho mai dimenticato Censino" confessa. Fosse stato per il Destino, si sarebbero rivisti. E proprio a Milano, un giorno degli anni ’60. Sul tram, su uno di quei tram chiamati desiderio. "Ma io – ricorda Bruna – feci finta di nulla, non volevo mi vedesse quel giorno perché in quel periodo non me la passavo bene". Già, arrivata a Milano, trascorre qualche mese ospite di una delle sue sorelle a Sesto San Giovanni, poi decide di andare a vivere per conto suo, prende in affitto una camera in una pensione: "Me la sono pagata coi soldi dei primi lavori, a volte evitavo di cenare per far sì che mi rimanesse il necessario per l’affitto. Non capisco i giovani che oggi si lamentano dei sacrifici: io ne ho dovuti fare tanti, il precariato c’era anche ai miei tempi e, non bastasse, ho vissuto anche la Milano del razzismo contro i meridionali".

E, poi, la Milano del boom economico. Nel suo curriculum ci sono i brand e l’epopea di una città e di un Paese che scoprono via via il benessere: "Ho lavorato 10 anni alla Standa di corso Buenos Aires, poi alla Mira Lanza", marchio di detersivi. Nel frattempo, di stipendio in stipendio, di sacrificio in sacrificio, Bruna riesce a lasciare la pensione e trovar casa insieme ad altre coinquiline in zona Loreto, dove vive tuttora, dove conoscerà Enzo, l’uomo col quale trascorrerà 43 anni della sua vita. Senza mai sposarsi: "Nella mia testa non c’era la parola matrimonio" assicura ancora oggi col piglio di chi ha imparato ad amare senza pretendere, a condividere senza voler possedere. Il concetto che Bruna ripete più spesso, quando parla della relazione con Enzo, è: "In una coppia bisogna cercare di capire come è fatto l’altro e amarlo per come è, senza volerlo cambiare".

Ha sempre cercato di guardare Enzo con gli occhi di Enzo. Proprio come le sarebbe piaciuto che avesse fatto suo padre con lei. "Mio padre non mi ha protetto, mai accettato la mia scelta di venire a Milano. E dopo la mia partenza i rapporti si sono praticamente interrotti". Enzo, invece, se n’è andato nel 2006, vinto dall’Alzheimer. Bruna ancora oggi porta al collo una collanina con incastonata una sua foto: "Insieme a lui è volata in cielo metà della mia vita. Un giorno, durante la malattia, mi ha confessato che aveva paura. Io gli dissi che fino a quando ci sarei stata io non avrebbe dovuto avere paura di niente. Appena è venuto a mancare ho toccato il fondo, non ero pronta, un dolore fortissimo".

E allora Bruna avrebbe avuto bisogno di un conforto speciale: "Non so che significhi una carezza di mia madre, perché l’ho persa quando avevo 3 anni". Oggi Bruna coltiva la fede, frequenta la parrocchia del Santissimo Redentore, trova conforto nei libri del teologo benedettino Anselm Grun, ha partecipato ad un primo ritiro spirituale. Gioca a tombola e burraco. Ha "ancora voglia di innamorarsi", si commuove "ancora quando vede una coppia passeggiare mano nella mano". E vive come ha sempre vissuto, esattamente nello stesso modo in cui si sogna: ad occhi aperti.

 

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