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Lo scrittore Raul Montanari: "Milano? Mi sono salvato dalla provincia"

"È stata mia madre la prima a capirlo. Decise che dovevamo lasciare Castro, un paese sul lago d’Iseo dove abitavamo, perché così avrei avuto più possibilità" di MASSIMILIANO CHIAVARONE

In viale Suzzani Montanari ha vissuto dall’età di 8 anni

Milano, 7 febbraio 2016 - «Milano mi ha salvato la vita». Lo racconta lo scrittore Raul Montanari. «Stando qui ho evitato il rischio di restare confinato nella vita di provincia».

Questa città è la sua àncora?

«Sì, perché non ha nulla di scontato. A partire dal suo centro, che non è unico, ma formato da più centri. Semmai Milano non ha luoghi dove si può socializzare, perché manca dei grandi vialoni in cui passeggiare, delle grandi percorrenze, insomma è difficile fare le cosiddette vasche».

Il suo timore: la vita di provincia?

«È stata mia madre la prima a capirlo. Decise che dovevamo lasciare Castro, un paese sul lago d’Iseo dove abitavamo, perché così avrei avuto più possibilità. Mio padre lavorava alla Singer di Monza. Avevo tre anni quando ci trasferimmo a Milano».

Quindi è cresciuto e si è formato qui?

«Sì, con momenti belli e altri meno. Ero un bimbo iperattivo, intelligente ma come si diceva allora “molto vivace”, non riuscivo a stare fermo e a concentrarmi. Poi trovai un maestro fantastico, era Tommaso Girelli e insegnava alla scuola elementare di via Cirié. Si discostava del tutto dal quel clima educativo dai tratti  violenti e oppressivi che imperava.  Grazie a lui trascorsi anni sereni e ricchi di cose nuove da imparare».

In che zona vivevate?

«In viale Suzzani, zona Ca’ Granda. All’inizio andammo in un palazzo all’angolo con via De Martino. Cinque anni dopo, quando nacque mia sorella Marina, ci trasferimmo in viale Suzzani 19. L’area si chiama Pratocentenaro, perché allora c’erano poche case, in mezzo ai campi. Ho abitato qui fino a 26 anni. Ricordo estati assolate e libere».

Viale Suzzani è la via che preferisce?

«Ogni volta che ci ritorno parte la colonna sonora del sentimento. È la zona di Milano che, forse più di altre, fa parte di me. Dal punto di vista urbanistico prevale l’orizzontalità, con tante case basse, che non sono dominatrici e opprimenti, come accade invece con la tendenza della Milano verticale di adesso. È un quartiere mal collegato e questa caratteristica ci faceva sentire “tutti nella stessa barca”. Eravamo tra proletariato e piccola borghesia, solo italiani. Il razzismo allora era diretto contro i meridionali. Tra noi ragazzini contava molto andare bene a scuola più che essere ricchi. D’estate poi facevamo interminabili partite a baseball o a pallone nei campi davanti al Deposito Generi di Monopolio che ora è chiuso. Quanti vetri abbiamo rotto, di auto e di palazzi. Quegli anni li porto dentro di me. La Milano dei miei libri è sempre quella della periferia Nord».

Anche nell’ultimo?

«Appieno. Ne “Il regno degli amici” (Einaudi) racconto la storia di quattro ragazzi che trovano una casa abbandonata sul Naviglio della Martesana e che diventa il loro “regno”. Lo zio del protagonista fa il dimafonista al Giorno. I piani del racconto si mescolano, la Milano della quotidianità corre insieme a quella mitica che ha i connotati dell’adolescenza. È un’altra tessera del mosaico che compone la mia storia con la città».

Come si è avvicinato alla scrittura?

«È la mia passione alimentata da alcuni incontri milanesi che sono stati decisivi. Lavoravo nel campo della pubblicità, decisi di mollare tutto per scrivere. Per due anni ho fatto la fame, rubacchiavo le cose da mangiare nei supermercati. Una volta mi scoprirono, ma mi lasciarono andare. Nel 1991 ho pubblicato il mio primo titolo, “Il buio divora la strada”, con Leonardo Mondadori. Poi ne ho scritti altri dodici. Mi esortò a scrivere Giovanni Testori».

Come fu il vostro incontro?

«Molto stimolante. Lesse tutti i miei racconti. Andavo spesso nel suo studio in via Brera. In quel periodo collaboravo con il teatro Out-Off di cui uno dei mattatori era il regista Antonio Syxty che a Testori piaceva. Mi interrogava di continuo per scoprire se ci fosse qualcosa tra noi. A parte questo, mi colpiva la sua attrazione per gli ultimi, per la gente che non aveva mezzi, diceva: “Io sono la loro voce”. E poi sempre a Milano ho conosciuto Aldo Busi».

Viveva qui?

«Sì, era verso la fine degli anni ’80. Lui mi suggerì il titolo del mio secondo libro, «La perfezione». Ha un enorme orecchio per il “suono” dei testi. Ma ci siamo persi di vista».

di MASSIMILIANO CHIAVARONE

mchiavarone@gmail.com