ANDREA GIANNI
Cronaca

Milano, nodo immigrati: "Nessuno affitta a uno straniero"

Bilget, il viaggio della speranza e la lotta per l’integrazione: ora ha un lavoro

Bilget Hamadou con Maurizio Bove dell’Anolf di Milano

Milano, 4 ottobre 2019 - Bilget Hamadou mostra i segni sulle gambe delle bastonate ricevute in Libia, ricordo di un passato di violenza e terrore. Poi la traversata del Mediterraneo, il naufragio del barcone e un approdo a Milano, dove è riuscito a trovare un lavoro a tempo indeterminato e una casa in affitto, uscendo dal circuito dell’accoglienza. Una storia di integrazione riuscita, nella Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione. Anche se uno degli ostacoli da superare è stato l’affitto di un appartamento con contratto in regola, nella città più multietnica d’Italia. «A Milano nessuno vuole affittare casa a uno straniero - racconta -. Mi ha aiutato nella ricerca un amico italiano, che per conto mio contattava le agenzie al telefono. Quando però ci presentavamo all’appuntamento, e l’agente vedeva il colore della mia pelle, all’improvviso la casa, libera fino a pochi minuti prima, non era più disponibile. Questo nonostante la garanzia del mio contratto di lavoro». Bilget, 26 anni, originario del Camerun, alla fine ce l’ha fatta. Tramite conoscenti ha trovato casa nella zona di via Corelli, vicino al centro di accoglienza dove ha vissuto per un periodo. E a settembre è arrivata l’assunzione, a tempo indeterminato, nel locale di una catena della ristorazione nel cuore di Milano, che gli permetterà di convertire il permesso di soggiorno per motivi umanitari abolito dal decreto sicurezza in permesso per motivi di lavoro. Una base per costruire un futuro stabile in Italia, dopo aver mosso i primi passi nel mondo del lavoro grazie a un tirocinio nell’ambito del progetto Labour-Int promosso da Anolf e Fisascat Cisl Milano. «Ogni mese pago l’affitto e riesco a mandare 200 euro in Camerun - spiega - con i quali mantengo mia madre e mia sorella». Bilget è nato in un villaggio nel Nord del Camerun, in una zona colpita della incursioni dei terroristi di Boko Haram. «Mio padre è stato ucciso - racconta - io nel 2014 ho deciso di scappare e sono andato in Ciad, proseguendo poi verso la Libia, dove siamo stati fatti prigionieri e costretti a lavorare come schiavi. Lì era un inferno». Nel 2016 è riuscito a salire su un barcone, diretto verso l’Italia. «Ho aiutato una donna a partorire - prosegue - e lei ha dato a suo figlio il mio nome. Abbiamo fatto naufragio, eravamo in 150 e ci siamo salvati in 50». Morti senza nome, come quelli finiti al centro dell’impegno del medico legale Cristina Cattaneo per identificare le vittime delle stragi nel Mediterraneo di quel periodo. Bilget è stato soccorso e portato a Trapani, poi ha trovato riparo a Milano. Adesso ha un lavoro stabile, a differenza di tanti stranieri che anni dopo l’arrivo in Italia vivono di espedienti. «Deve essere offerta a tutti la possibilità di lavorare in regola - conclude - di pagare le tasse e trovare casa. Il futuro? Mi piacerebbe prendere la cittadinanza italiana e tornare a Trapani, sposare una ragazza siciliana. Faremmo dei figli color cioccolato al latte», scherza.