MARIO CONSANI
Cronaca

Sumaya Abdel Qader: "Gli imam difendano le donne"

La consigliera comunale del Pd di fede islamica: nel sermone del venerdì parlino agli uomini

Sumaya Abdel Qader

Milano, 14 luglio 2018 «Mi sono trovata davanti a una scena terribile. Il padre aveva avuto un malore dopo la discussione e il figlio era scappato, ma le ragazze urlavano disperate e la mamma aveva un braccio tagliato e sangue che schizzava da tutte le parti. Con uno straccio le ho legato il polso per tamponare la ferita in attesa dell’ambulanza...». Circa un anno fa Sumaya Abdel Qader, consigliera comunale del Pd di fede islamica, è stata suo malgrado testimone di una violenza familiare. Una famiglia bengalese vicina di casa, dove – come raccontato ieri dal Giorno – il padre e il figlio maschio comandavano costringendo le tre donne, madre e due figlie, a subire costantemente violenze fisiche e psicologiche.

È stata Sumaya a chiamare la polizia sentendo le urla una sera, nel maggio dell’anno scorso, e poi è stata anche teste al processo concluso nelle scorse settimane con la condanna dei due uomini a sei e quattro anni di reclusione per maltrattamenti in famiglia e lesioni. «Modalità classica di padri padroni e uomini che comandano – commenta ora – in una famiglia con due ragazze piene di vita e perfettamente integrate che vogliono studiare e devono anche mantenere gli altri che sono senza lavoro».

Non sono vicende rare.

«Certo, il fenomeno esiste. Però vorrei si dicesse che il problema è trasversale alle religioni e ai Paesi. Non succede solo tra le coppie musulmane ma anche, per dire, tra i cristiani copti e più spesso, lo dicono le statistiche, tra i cattolici italiani...».

Nessuna differenza?

«Sì, che le donne immigrate hanno maggiore difficoltà a denunciare la violenza subita, spesso per scarsa conoscenza della lingua e talvolta per la paura di essere giudicate dalle loro comunità».

Lei ha contribuito al progetto Aisha, che serve proprio a dare un sostegno in casi del genere.

«È un progetto del Comune di Milano nato per le donne musulmane vittime di violenza e agisce nell’ambito delle diverse comunità: bengalese, pakistana, marocchina, egiziana. Chi collabora con Aisha rappresenta un punto di riferimento all’interno di quello specifico gruppo, cui le altre donne sanno di potersi rivolgere per chiedere aiuto. Sono come delle antenne sempre sensibili».

Sta funzionando?

«Sì. Al punto che talvolta a questa rete anti-violenza finiscono per rivolgersi anche donne non musulmane. È importante riuscire a gestire questi fenomeni da dentro le comunità. L’intervento è più forte».

E per gli uomini violenti?

«Per ora c’è poco, qualche associazione ma poco all’interno delle comunità. Come musulmani stiamo cercando di coinvolgere gli imam perché parlino di queste cose anche agli uomini nel sermone del venerdì, che è un momento educativo molto importante».

E gli imam collaborano?

«Sì. C’è per esempio quello della moschea di via Padova 366 che è coinvolto anche nel progetto Aisha: le donne in difficoltà parlano con lui e lui poi si rivolge agli uomini spiegando loro che se pensano di essere devoti comportandosi così commettono un grosso errore. Certo c’è un lavoro difficile da fare con gli uomini, servono persone preparate».

Mario Consani

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