Madre e figlie torturate in casa: umiliate e picchiate dai maschi di famiglia

Condannati in primo grado per maltrattamenti in famiglia e lesioni: 6 anni di reclusione al padre, 4 al figlio, con l’aggravante di aver agito per futili motivi, pretendere che le loro donne "accettassero le tradizioni del Paese d’origine"

Tribunale in un'immagine di repertorio

Tribunale in un'immagine di repertorio

Milano, 13 luglio 2018 - Insulti volgari, offese e minacce di continuo. E poi calci e pugni se gli ordini non venivano rispettati. Erano i due uomini, padre e figlio, a stabilire cosa era giusto che le donne di quella famiglia originaria del Bangladesh facessero oppure no. Le due figlie dovevano lavorare, ma non potevano frequentare ragazzi italiani, meglio che non parlassero proprio la nostra lingua. E poi le gonne corte, i tacchi alti. Quando una delle due sorelle usciva vestita all’occidentale, il fratello avvertiva il padre che alzava le mani sulla colpevole e sulla moglie, responsabile di non opporsi a quel modo di vivere. Un inferno per le tre donne, un vero incubo che durava da anni. Fino al maggio dell’anno scorso, quando una sera il padre fece cadere apposta delle stoviglie e con in mano pezzi di ceramica e di vetro appuntiti cominciò ad aggredire la moglie e una figlia fino a ferirle, tra le urla delle due sventurate e il sangue che schizzava.

Prima della polizia, sentendo le grida quella sera intervenne la vicina di casa, la consigliera comunale di fede islamica Sumaya Abdel Qader, che poi si sarebbe anche presentata a testimoniare nell’aula del tribunale. Perché alla fine dell’incubo e del processo i due bengalesi sono stati condannati in primo grado dal giudice Elisabetta Canevini per maltrattamenti in famiglia e lesioni: sei anni di reclusione al padre, quattro al figlio, con l’aggravante di aver agito per futili motivi, pretendere che le loro donne «accettassero le tradizioni del Paese d’origine». Per entrambi anche la misura cautelare dell’allontamento dall’abitazione familiare e il divieto di avvicinarsi alle vittime, difese dall’avvocato Gaia Inverardi, che dovranno anche risarcire: intanto 50 mila euro alla madre e 25 mila per ciascuna delle due ragazze.

Erano anni che in casa della famiglia “Alam” (cognome di fantasia), originaria dell’ex Pakistan orientale ma da tempo trapiantata in città, le cose andavano a quel modo. Per l’accusa, padre e figlio costringevano la madre e le due sorelle a «subire mortificazioni, vessazioni fisiche e morali di ogni genere, ingenerando in loro un permanente stato d’ansia e paura nonché il fondato timore per la propria incolumità». Tanto più da quando il capofamiglia aveva perso il lavoro ed erano perciò le due figlie, di fatto, a mantenere tutti anche se con un impiego (una normale occupazione in ambito turistico) che paradossalmente per l’uomo era comunque riprovevole venendo svolta da una donna. Così lui e il figlio - secondo la Procura - «svilivano» le due ragazze, le insultavano chiamandole «bastarde», «le minacciavano di morte, le picchiavano di continuo strattonandole, spingendole a terra e afferrandole per i capelli, con calci e pugni al viso e su tutto il corpo, con frammenti di vetro e parti di stoviglie precedentemente frantumati». Una storia terribile fatta di violenze e di sopportazione, di ignoranza e di timori, dell’incapacità (da parte dei due uomini) di accettare una realtà diversa da quella di origine ma anche, da parte delle vittime, della voglia di ribellarsi e al tempo stesso quella di non sentirsi escluse dalla propria comunità.