STEFANIA CONSENTI
Cronaca

Il segno di Omar Galliani. Elogio della lentezza: "Manca un bar Jamaica. Luogo generativo di idee"

Il maestro emiliano ha donato al Museo del ’900 una delle sue opere storiche. E lancia un appello: "Ritrovarsi per battere l’isolamento, così aiutiamo i giovani".

Omar Galliani, grande "maestro del disegno", il Museo del ’900 ha acquisito per le proprie collezioni l’opera “Dalla bocca e dal collo del foglio” del 1977, che lei ha donato. Un bellissimo gesto qual è l’origine di questa sua scelta?

"Tutto è cominciato con “Diacronica” ampia mostra monografica, di qualche anno fa, con un centinaio di mie opere, curata da Flavio Caroli e Vera Agosti, a Palazzo Reale".

Un meraviglioso viaggio nel tempo, attraverso i suoi numerosi lavori presentati nelle Biennali di Venezia, Parigi, San Paolo, Praga, Tokyo, Pechino, con qualche inedito realizzato appositamente

per l’esposizione milanese.

"Si. Durante quell’occasione, visitando la mostra, il direttore del museo del ’900 Gianfranco

Maraniello, non ha avuto esitazioni pensando alla futura inaugurazione della Galleria Gesti e

Processi. “Dalla bocca e dal collo del foglio” è per me un’opera fondamentale, che apre la porta al lungo viaggio del mio lavoro. L’anno in cui realizzo quel disegno, il 1977, frequentavo l’Accademia a Bologna, ero uno studente del maestro Concetto Pozzati che teneva la cattedra del corso di Pittura; erano anni in cui gli artisti dell’avanguardia e concettuali erano dirompenti, nel 1974 nasce Arte Fiera, la prima, storicamente la più importante, delle rassegne fieristiche italiane. Assorbivo come una spugna tutti gli input che mi arrivano dagli autori verso i quali provavo grandi affinità,Paolini, Vettor Pisani, De Dominicis, Luciano Fabro. Una generazione prima della mia. Il viaggio parte da lì senza dimenticare Peter Blake con la sua Alice in Wonderland. Cito Caravaggio, il sacrificio di Isacco, quel braccio che entra nel foglio e finisce con uno strappo provocato da una

lama di cristallo, che lacera il foglio, sta ad indicare che quando abbiamo a che fare con la storia

dell’arte è sempre una ferita che si apre, è la ferita del tempo il desiderio di poter in qualche modo riprenderlo".

L’immagine suscita anche una riflessione sulla contemporaneità, drammatica che viviamo...dai fatti di femminicidio sino alle guerre.

"Una giusta osservazione. Tempi tragici. Negli anni in cui ho realizzato l’opera, Bologna viveva, forte, la contestazione studentesca, erano gli anni ’77-’78; la violenza nelle strade scorreva per motivi politici. Oggi c’è la guerra e il mondo non è in pace per questioni geopolitiche, per nuovi assetti di potere, economici. Si potrebbe anche fare una rilettura teologica, con un Dio che ci mette alla prova. Comunque sono molto orgoglioso, l’opera è collocata all’interno di un focus dedicato all’Arte concettuale, con Giulio Paolini, Emilio Tadini, Emilio Isgrò".

Qual è lo stato di salute dell’arte in Italia?

"Direi che è uno stato confusionale, con il mercato che ha preso il sopravvento su tutto, sui

contenuti. Quello che sta avvenendo oggi con la globalizzazione dell’arte è che ha tolto identità culturali, le ha in qualche modo unificate. Assistiamo ad uno scorrimento di immagini che

avvengono attraverso i social dove non ci ferma più a riflettere. Ho insegnato a Brera tanti anni, ho avuto un contatto diretto con i giovani... anche per loro è

difficile, sono disorientati".

Molti artisti contemporanei denunciano anche una condizione di isolamento, si sta chiusi negli atelier. A Milano si sente forte questo limite, ci vorrebbe un altro Bar Jamaica, un modo per ritrovarsi.

"Sarebbe una bellissima cosa! Lanciamo questa proposta. In un mondo che corre veloce trovare un luogo dove potersi incontrare, anche litigare, come facevano Piero Manzoni, Ugo Mulas e tanti altri artisti ed intellettuali al Jamaica sarebbe un atto fecondativo. Per quanto mi riguarda mi sono ritagliato uno spazio fuori dal tempo, abito fra Parma e Reggio Emilia, in campagna, circondato dalla natura. Certo, una volta a settimana prendo il Frecciarossa per andare a Milano, tengo vivo il legame con una città che comunque è generativa, di nuovi talenti, di idee. Ho avuto incontri importanti, la città mi ha dato molto sul piano dei contatti, penso ai collezionisti, letterati, è una città che nutre. Non posso non citare editori importanti come Mazzotta, Prearo. Ho scelto,

per esprimermi, uno strumento senza tempo, il disegno. Una scelta della lentezza, la lentezza che si contrappone alla velocità; non è un sottrarsi ma una scelta di trincea. Porto avanti questa mia scelta artistica, in solitaria ma ho scoperto che ci sono altri che l’hanno fatto, mi riferisco a Robert Longo che realizza opere in bianco e nero, a carboncino, anche opere monumentali".

Lei utilizza la grafite. Qual è il rapporto con la pittura? E’ vero che dipinge solo d’inverno?

"Lavoro di bianco e nero, la grafite non è nera ma paragonabile ad un argento intenso, che si sovrappone a quella parte di luce bianca che è nel pioppo, nel vegetale stratificato. Il nero nei miei disegni non è luttuoso è un passaggio dall’ombra alla luce. La pittura non l’ho mai abbandonata, nelle prime biennali le opere erano dipinti poi deluso da quanto vedevo in giro ho scelto l’uso della matita... Quando nevica dipingo una grande tela...ancora non l’ho fatta, il cambiamento climatico si sente molto, non è nevicato ancora".

Progetti futuri?

"Un grande, importante lavoro in Cina, di cui non posso aggiungere molto".