STEFANIA CONSENTI
Cronaca

I “corpi del reato“ di Shirin Neshat: "Le donne sono la mia ossessione"

La mostra di Shirin Neshat al PAC di Milano esplora trent'anni di carriera con video-installazioni e opere fotografiche.

La mostra di Shirin Neshat al PAC di Milano esplora trent'anni di carriera con video-installazioni e opere fotografiche.

La mostra di Shirin Neshat al PAC di Milano esplora trent'anni di carriera con video-installazioni e opere fotografiche.

L’arte l’ha resa libera. "Un privilegio per pochi. Quella libertà che ho avuto negli Stati Uniti per realizzarmi come artista e che oggi faccio fatica ancora a scorgere". Minuta, apparentemente fragile, ma fortissima. È l’iraniana Shirin Neshat, 67 anni, esule volontaria, vincitrice del Leone d’Oro alla Biennale d’Arte di Venezia nel 1999, del Leone d’Argento per la miglior regia alla Mostra del cinema nel 2009 per il lungometraggio Uomini senza donne e del Praemium Imperiale a Tokyo nel 2017. Ieri Neshat è intervenuta a Milano per presentare al PAC – Padiglione d’Arte Contemporanea – la sua mostra Body of Evidence (fino all’8 giugno). Curata da Diego Sileo e Beatrice Benedetti, l’esposizione ripercorre oltre trent’anni di carriera dell’artista attraverso una decina di video-installazioni e quasi duecento opere fotografiche, entrate a far parte delle maggiori collezioni museali al mondo.

Dopo il suo primo viaggio di ritorno, in Iran, nel 1990, Neshat comincia a riflettere sulle profonde trasformazioni avvenute nel suo Paese dopo la rivoluzione islamista del 1979, affrontando il ruolo della donna, relegata nella scala sociale al gradino più basso. E alla quale viene negato tutto, il diritto al proprio corpo, perfino il diritto di poter cantare in pubblico da soliste, perché la voce – secondo le autorità religiose – avrebbe una carica erotica intollerabile. Il percorso della mostra non segue un ordine cronologico ma si dispiega attraverso i linguaggi privilegiati dall’artista, ossia la fotografia e il video. Si viene accolti, nella prima sala, da Fervor (del 2009, terzo e ultimo capitolo di una trilogia di cui fanno parte i ben noti Turbulent e Rapture): racconta di un incontro fortuito fra un uomo e una donna, dagli sguardi si accende una passione ma poi ognuno va per la sua strada. E in un secondo incontro si ripresentano separati da un lungo tendaggio nero, durante un presumibile incontro pubblico, forse politico.

Forte l’impatto, ed è una scelta curatoriale, di esporre Women of Allah (1993-1997) sulla balconata del PAC. Tra le serie più conosciute di Neshat, realizzate dopo il suo primo viaggio in Iran, nel 1990, dopo sedici anni di assenza. Foto gigantesche in bianco e nero di donne velate, molti sono autoritratti. Donne il cui corpo è negato alla vista, coperto con lo chador, e dove sulle uniche parti scoperte (il viso, le mani, i piedi) appaiono segni calligrafici in lingua farsi, che l’artista ha vergato a mano con inchiostro nero, sulla stampa fotografica, quasi, ha dichiarato, una voce che rompe il silenzio della composizione.

"Il corpo femminile è la mia ossessione", ammette Neshat, parlando con la stampa. In alcune foto le protagoniste hanno con sé le armi, e, alcune, viste da sotto, sembra che siano puntate verso il visitatore, costringendolo a prendere coscienza. La parte più onirica della mostra è costituita da Roja (video del 2016 della serie Dreamers) dove si affronta il tema delle identità culturali, e della difficoltà di sentirsi accolti.

Dedica all’America (siamo alla fine della prima presidenza Trump) la monumentale Land of Dream, "un ritratto dell’America", un’identità "che sta lentamente cambiando oggi", dice Neshat. Un lavoro che allude alla terra dei sogni, che per molti migranti non è stata un miraggio, con centinaia di fotografie scattate nel New Mexico da Shirin Neshat, proprio come la protagonista del film, trascrivendone i sogni in lingua farsi. Per scoprire, poi, similitudini presenti tanto nella società statunitense quanto in quella iraniana. Al netto di ideologie e pratiche oppressive di controllo, le paure degli esseri umani si assomigliano tutte. "Così vedo il mio lavoro di artista – dice Neshat – non dire mai al pubblico chi ha ragione, chi ha torto, chi è buono e chi è cattivo. Sollevo domande, e lascio che decidano da soli".