Gli indagati ai giudici: I rider? Puntini sulla mappa

I carabinieri hanno scoperto che la società di intermediari era “fantasma”

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Un confronto in aula tra le parti, che potrebbe allargarsi a comprendere i casi di Torino. Il 22 ottobre ci sarà l’udienza per la discussione del provvedimento di amministrazione giudiziaria di Uber Italy, la filiale italiana della multinazionale del noleggio e delivery, commissariata per caporalato. Nel frattempo i giudici del tribunale, sezione misure di prevenzione (presidente Fabio Roia), hanno nominato un amministratore giudiziario che controllerà tutti i movimenti della società e parteciperà alle riunioni di management.

In realtà sarebbero stati alcuni dipendenti del colosso americano a tenere rapporti con gli intermediari accusati di caporalato, configurando, con il loro atteggiamento, la responsabilità diretta della società nel reato individuato nell’articolo 603bis del codice penale, cioè "intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro" per la gestione dei rider di Uber Eats. I ciclofattorini formalmente non lavorano per Uber, ma per altre due società di intermediazione del settore della logistica, tra cui la Flash Road City che risulta indagata nel procedimento.

Gli intermediari finiti nella inchiesta spiegano che i rider per Uber sono "solo dei puntini su una mappa, da attivare o bloccare a loro piacimento con il mero intento di ottimizzare il servizio della piattaforma e far guadagnare ad Uber il più possibile". E ancora: "Più volte ci siamo lamentati con l’azienda perché aumentasse il valore delle consegne, ma tutto è stato inutile, anzi nel corso del tempo la tariffa è sempre più diminuita in tutte le città". Questo spiegano in una memoria depositata agli atti dell’inchiesta, due degli indagati della società Flash Road City, che, stando alle indagini, avrebbe svolto intermediazione di manodopera.

In sostanza, i due, Giuseppe Moltini e Danilo Donnini, nella memoria ai pm spiegano che era Uber a imporre le tariffe (3 euro a consegna) e le "punizioni" ai rider che venivano "bloccati", cioè veniva disconnessa la loro applicazione, quando non seguivano le regole. "Al contrario noi, avendo un rapporto diretto e personale con i ragazzi - si legge nella memoria - abbiamo sempre cercato di tutelarli e difenderli (incentivi, bonus, assicurazioni, regali di bici, facilitazioni nell’acquisto di telefoni, anticipi di denaro etc…), ma soprattutto abbiamo sempre cercato di ascoltarli". E ancora "noi non abbiamo mai avuto il potere di bloccare un account (...) lo potevano fare solo i manager di Uber". L’inchiesta nasce da un controllo sulle mascherine effettuato durante il lockdown. Uber Eats era stata segnalata alla procura dai carabinieri nell’ambito di ispezioni sulla dotazione di mascherine e altri dpi forniti ai rider perché l’indirizzo di posta elettronica certificata depositato in Agenzia delle entrate e in Camera di commercio era inibito alla ricezione delle mail. E da accertamenti all’indirizzo della sede legale non era stato possibile risalire a cassette postali, numeri telefonici o altri indirizzi. La società, inoltre, sempre stando alla relazione dei carabinieri era sconosciuta all’Inps.Anna Giorgi

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