NICOLA PALMA
Cronaca

Giovane salvadoregno scappa dalle pandillas, i giudici: “Si è ribellato a gruppi violenti, va protetto”

Fuggito dal suo Paese per non essere affiliato a Mara Salvatrucha o Barrio 18. Il Tribunale di Milano concede lo status di rifugiato e la protezione internazionale

La Mara Salvatrucha è una delle pandillas più violente di El Salvador

La Mara Salvatrucha è una delle pandillas più violente di El Salvador

Milano – È scappato dalle bande che tormentano da tempo il suo Paese di origine. Si è ribellato a un destino segnato e ha scelto di espatriare per costruirsi una nuova vita lontano da sangue e morte. Ha deciso di sfidare le regole che reggono quelle gang violente, pur di non andare a ingrossarne le fila come succede a tanti suoi coetanei.

Questa è la storia di un giovane salvadoregno, sulla cui identità non forniremo ulteriori dettagli per non renderlo riconoscibile, che qualche anno fa ha scelto di emigrare in Italia per non diventare un pandillero della Mara Salvatrucha o del Barrio-18, organizzazioni criminali che spadroneggiano nello Stato centroamericano e che hanno pian piano costruito filiali anche a queste latitudini (vedi le indagini delle forze dell’ordine che ne hanno puntualmente smantellato le propaggini meneghine). Ora il ragazzo è ufficialmente un rifugiato, per effetto della sentenza della sezione specializzata del Tribunale di Milano che gli ha riconosciuto la protezione internazionale, ribaltando il giudizio della commissione territoriale. In sintesi, il ricorrente, assistito dagli avvocati Lorenzo Chidini e Maria Beatrice Sciannamblo, è fuggito per evitare di essere affiliato come marero, entrando così a far parte del “gruppo sociale di coloro che si sottraggono al controllo della pandilla in El Salvador”.

Il suo racconto è stato reputato “chiaro, preciso e dettagliato” dal collegio presieduto da Pietro Caccialanza: “In conclusione – si legge nel verdetto – si ritiene che la vicenda narrata sia nel complesso credibile”. Altrettanto fondato è di conseguenza il rischio che il giovane “possa subìre persecuzioni” in caso di rientro in patria. Nelle motivazioni, i giudici hanno analizzato a fondo la struttura delle maras, prendendo spunto da report specializzati e analisi dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr): “Il reclutamento della Mara Salvatrucha (MS-13) e della Barrio 18 in El Salvador è un fenomeno complesso e violento, che coinvolge diversi settori della società, tra cui le scuole”. E ancora: “Le scuole in El Salvador rappresentano un importante bacino per queste bande criminali: gli adolescenti e i bambini sono considerati bersagli facili perché più influenzabili e spesso privi di alternative sociali ed economiche. Le bande approfittano della mancanza di sicurezza nelle scuole, nonché delle difficili condizioni socio-economiche delle famiglie, per reclutare i giovani. Molte scuole si trovano in aree controllate dalle gang, dove la presenza della polizia è scarsa o inesistente”.

Questo contesto “rende difficile per gli insegnanti e gli studenti denunciare o resistere alle pressioni”, anche perché gli alunni vengono spesso minacciati “con violenze contro di loro o le loro famiglie se rifiutano di unirsi”. Così molti sono costretti a lasciare gli studi, incrementando il tasso di abbandono scolastico e dicendo addio a potenziali “opportunità future”.  Il giro di vite imposto al governo di Nayib Bukele, con operazioni su larga scala, non ha risolto il problema (al netto di possibili violazioni dei diritti umani e incarcerazioni “senza prove solide)”; e non basta neppure il lodevole lavoro di ong e agenzie governative per offrire “attività ricreative, programmi di formazione professionale e supporto psicologico”.

Uno scenario così drammatico dà ancor più valore alla scelta del giovane salvadoregno, che ha sfidato le maras e il loro potere assoluto fondato su un rigidissimo codice d’onore (con punizioni esemplari che vanno dai pestaggi di gruppo all’omicidio) e su un sistema che prevede sì l’abuso della “forza fisica” ma anche un capillare “controllo psicologico”. Da qui la sentenza: “Il ricorrente appartiene a un ben identificabile gruppo sociale, ossia a coloro che si sottraggono alle regole delle bande che controllano il territorio”. E quindi ha diritto a restare in Italia da rifugiato.