ELVIO
Cronaca

Evgenij Onegin. Formidabile quel Martone...

Giudici è andati alla Scala – dove si riproponeva Evgenij Onegin di Čajkovskij – rassegnati a ripensare con nostalgica memoria...

Giudici è andati alla Scala – dove si riproponeva Evgenij Onegin di Čajkovskij – rassegnati a ripensare con nostalgica memoria al capolavoro registico di Dmitrij Černjakov applaudito 16 anni fa: e invece, non lo si è rimpianto più di tanto col memorabile spettacolo di Mario Martone. Piantato nel mezzo del passaggio dal Romanticismo iperbolico, utopistico e universale a quello crepuscolare dove l’intimismo si nutre d’autobiografia, Čajkovskij centra l’opera sulle complementari solitudini di Tatiana persa nei suoi sogni nutriti dalla letteratura, e di Onegin chiuso nel suo algido snobismo: e Martone, prima le immerge nella natura russa dei cieli sconfinati su distese di grano o ghiaccio, dove troneggia un bunker-rifugio (niente folclore di matrioske e balalaike, evviva) stipato di libri, dove Tatiana si autoesclude dal mondo; dove Onegin se ne sta in disparte guardando attraverso occhiali neri; dove la rissa fomentata dall’alcool è sempre lì lì per esplodere, in un mondo in cui la guerra è endemica, pronta a divorare nel fuoco i libri degli idealisti (e il rogo dei libri nella Berlino di Hitler è dietro l’angolo); dove la solitudine s’afferma in un duello, scaduto ad alienata roulette russa. Dominio assoluto del palco, metafore appropriate a rileggere un classico nei giorni nostri, dimostrandone l’universalità: capolavoro.

In perfetta simbiosi la direzione di Timur Zangiev, nel cui nitore dinamiche e spessori pulsano e dove ritmi, colori, oasi melanconiche e brucianti impennate, lungi dall’appesantirsi nell’enfasi retorica con la quale tanti sviliscono la nevrotica, modernissima inquietudine di Čajkovskij, tendono un arco drammatico tanto vibratile quanto in tensione. Purtroppo, a svilire direzione e regia provvedono scelte infelici di cast. Se si dimostra superbo il coro di Alberto Malazzi, e se ottimo è il folto stuolo di parti di fianco: a brillare è solo il Lenskij di Dmitrij Korčak, che nella sua aria – tra le più belle di tutto l’800 musicale – crea un momento magico. Ma Alexsey Markov è protagonista di generica rozzezza; il Gremin di Dmitrij Ulyanov (sei minuti di canto, però tra i più sublimi) è intagliato nel legno; e manca Tatiana che è il cuore pulsante dell’opera: reso ahimè inerte da vocetta evanescente, affetta da insopportabile vibratino che fa scadere a queruli ciangottìi i sublimi palpiti di cui il suo fraseggio andrebbe intessuto.