
Un'aula di tribunale (Foto d'archivio)
Milano, 25 marzo 2016 - Nel 2010 l'azienda tessile di Nerviano di cui era amministratore non ha versato ritenute per oltre 730mila euro. Se lo avesse fatto, però, con ogni probabilità la società di cui aveva appena preso le redini avrebbe chiuso. Così Il giudice della terza sezione penale di Milano Ilio Mannucci Pacini lo ha assolto dall’accusa di evasione fiscale, non tenendo conto solo della «carenza di liquidità» che attraversava il gruppo, ma - vista la particolare situazione - ha fatto un passo avanti considerando «l’inesigibilità soggettiva» del pagamento delle imposte.
Nel 2010 l’imprenditore, difeso dall’avvocato Luca Parachini di Gallarate, non solo si trovava «con le spalle al muro», come ha ammesso in aula, ma durante l’anno aveva dovuto sostenere spese straordinarie per ripianare i buchi della precedente gestione e affrontare una forte crisi del settore tessile. Nello stesso periodo, aveva anche dovuto adeguare l’impianto di depurazione dell’acqua (stanziando 6,5 milioni di euro in due anni), su richiesta dall’Arpa, pena la chiusura dell’attività.
Nonostante le difficoltà, aveva scelto di non licenziare nessuno dei 155 dipendenti e di non ricorrere alla cassa integrazione. Così, si era visto costretto a saltare il pagamento delle tasse, con l’idea di provvedere «appena la liquidità aziendale lo avesse consentito». E quando nel 2013 gli era arrivato «l’avviso bonario dell’Agenzia delle entrate» aveva chiesto «la rateizzazione» del debito che aveva iniziato «a pagare puntualmente, continuando a farlo tuttora». Tenendo conto di una situazione così complessa, il giudice Mannucci Pacini lo ha assolto perché il reato è «stato commesso in circostanze anormali ed eccezionali tali da rendere umanamente inesigibile il pagamento delle imposte». Senza contare che in questo caso, ha fatto notare il magistrato nelle motivazioni depositate pochi giorni fa, una condanna «sarebbe percepita» dall’imputato «e dai consociati quale somma ingiustizia, e risulterebbe inevitabilmente una pena illegittima». Per l’imprenditore dell’Alto Milanese, il pm aveva chiesto una condanna a 4 mesi di carcere. Il giudice, invece, dopo aver fatto riferimento al «recente orientamento giurisprudenziale che riconosce alla ‘crisi di liquidità’ un valore esimente riconducibile all’assenza di dolo nell’evasione fiscale, ha riconosciuto che l’operato dell’imprenditore «non costituisce reato» in quanto «non rimproverabile».
L’imprenditore infatti «non si trovava, al momento della scadenza per il versamento delle ritenute, in una totale e assoluta impossibilità di adempiere al pagamento, ma «la sua scelta di non versare il dovuto è stata dettata dalle contingenze della situazione concreta». Aveva destinato «tutte le proprie risorse economiche» a spese fondamentali per evitare che l’azienda chiudesse e «si era trovato impossibilitato ad adempiere puntualmente al versamento delle ritenute certificate relative all’anno d’imposta 2010».