Milano – C’era una volta l’elefantessa Bombay. Con i suoi grandi occhiali senza lenti, quella proboscide capace di sfogliare uno spartito, quelle zampe in grado di suonare un organetto e di camminare su piattaforme piccole come scodelle. I suoi numeri hanno allietato tre generazioni di bambini, nello zoo dei giardini pubblici di Porta Venezia − oggi giardini Indro Montanelli. Fino alla morte, avvenuta nel 1987, seguita quattro anni dopo dallo smantellamento dello zoo. La sua testa è conservata al Museo di storia naturale, non lontano da dove si esibiva. La sua storia è raccontata in un libro − Suonala ancora, Bombe − scritto da Marta Nijhuis nel 2015 e ora ripubblicato in una seconda edizione illustrata a mano dall’autrice: le tavole originali sono esposte fino al 17 novembre vicino al diorama dell’elefantessa.
“Era la star indiscussa dello zoo − racconta Nijhuis − La chiamavano “Bombe”, una storpiatura del suo vero nome, Bombay, come la città indiana da cui proveniva. Arrivò a Milano nel 1939, ma le informazioni sono frammentate, e come ogni storia ha molte varianti”. Consultando gli archivi municipali e le testimonianze di chi l’ha conosciuta, Nijhuis ha scritto un racconto verosimile, intrecciando notizie certe e parti inventate. “Restò a Milano 48 anni, ma durante la guerra la città fu pesantemente bombardata e gli animali trasportati al parco di Monza”, prosegue l’autrice. Quando riaprì lo zoo, Bombay riprese a esibirsi quasi ogni giorno: suonava l’organetto e con la proboscide girava un cartello sul quale era scritto “Attenzione ai borsaioli”. Finito il numero, azionava una campanella e sapeva distinguere le noccioline offerte per lei dalle monetine per il custode.
Ma tutto cambiò a metà anni ‘80: per tutelare il benessere degli animali lo zoo venne via via svuotato e lo spettacolo di Bombay sospeso, perché considerato lesivo della sua dignità. “L’intento era lodevole, ma così finì in depressione, perché quel numero era il suo modo di esprimersi”, continua Nijhuis. L’elefantessa si ritrovò quasi sola e senza niente da fare. Iniziò a rifiutare il cibo. “Io l’ho vista fino ai miei cinque anni e me la ricordo così, triste, con la testa nell’angolo e il sedere rivolto ai visitatori. Questa depressione la portò alla morte”. Il suo cadavere fu trasportato al macello, ma un dipendente riuscì a far salvare la testa, che venne montata al museo su un corpo in vetroresina, in un diorama dedicato a un’area palustre indiana, dove Bombay, libera, si prende cura di un piccolo elefante.
“Quando ho letto il libro, lo scorso Natale, ho pensato che meritasse una versione illustrata e una mostra al museo”, racconta Andrea Tomasetig, curatore dell’allestimento e dell’edizione. “Perché la storia è un recupero della memoria di molti milanesi”. E, forse, ha ancora qualcosa da insegnare: “Abbiamo vissuto troppo per continuare a illuderci di essere gli unici esseri pensanti − conclude l’autrice − Altri viventi hanno un’empatia più sviluppata della nostra. E possono insegnarci qualcosa su come stare al mondo”. Proprio come Bombay, la star dello zoo di Porta Venezia.