Caso dj Fabo, la Consulta: "Norme sull'aiuto al suicidio sono da aggiornare"

La Corte d'assise di Milano, nel processo che vede imputato Marco Cappato, aveva messo in dubbio la costituzionalità dell'articolo 580 del codice penale

Dj Fabo

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Milano, 16 novembre 2018 -  Non è, di per sé, contrario alla Costituzione il divieto, sanzionato dal codice penale, di aiuto al suicidio. Tuttavia, occorre considerare specifiche situazioni, «inimmaginabili all'epoca in cui la norma incriminatrice fu introdotta, ma portate sotto la sua sfera applicativa dagli sviluppi della scienza medica e tecnologia, spesso capaci di strappare alla morte pazienti in condizioni estremamente compromesse, ma non di restituire loro una sufficienza di funzioni vitali». Lo indicano le motivazioni della Consulta sul caso dj Fabo, che ha rinviato al legislatore. 

Era stata la Corte d'assise di Milano nel processo che vede imputato Marco Cappato a mettere in dubbio la costituzionalità dell'articolo 580 del codice penale. E lo aveva fatto sostenendo che l'incriminazione delle condotte di aiuto al suicidio, non rafforzative del proposito della vittima, fosse in contrasto con i principi sanciti dagli articoli 2 e 13 della Costituzione, dai quali discenderebbe la libertà della persona di scegliere quando e come porre termine alla propria vita. La Consulta non ha però condiviso questa tesi, nella sua assolutezza.E ha ritenuto che il divieto di aiuto al suicidio ha una sua «ragion d'essere» soprattutto nei confronti delle persone vulnerabili, che potrebbero essere facilmente indotte a concludere prematuramente la loro vita, «qualora l'ordinamento consentisse a chiunque di cooperare anche soltanto all'esecuzione di una loro scelta suicida, magari per ragioni di personale tornaconto». Pertanto, non si può ritenere vietato al legislatore punire condotte che «spianino la strada a scelte suicide, in nome di una concezione astratta dell'autonomia individuale che ignora le condizioni concrete di disagio o di abbandono nelle quali, spesso, simili decisioni vengono concepite».

Tuttavia, non si può non tener conto di specifiche situazioni, inimmaginabili all'epoca in cui la norma fu introdotta. «Il riferimento - scrive la Corte - è, più in particolare, alle ipotesi in cui il soggetto agevolato si identifichi in una persona (a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli. Si tratta, infatti, di ipotesi nelle quali l'assistenza di terzi nel porre fine alla sua vita può presentarsi al malato come l'unica via d'uscita per sottrarsi, nel rispetto del proprio concetto di dignità della persona, a un mantenimento artificiale in vita non più voluto e che egli ha il diritto di rifiutare».

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