Dietro la statistica "E ci sono casi sommersi Urgente cambiare il modo di fare ricerca"

Cristina Finazzi, portavoce del Comitato lombardo Uniti per l’Autismo: "Spesso il disturbo dello spettro viene individuato tardi nelle bambine e negli autistici ad alto funzionamento. Siamo fermi alle teorie degli anni ’60".

Dietro la statistica  "E ci sono casi sommersi  Urgente cambiare  il modo di fare ricerca"

Dietro la statistica "E ci sono casi sommersi Urgente cambiare il modo di fare ricerca"

Giambattista

Anastasio

Cristina Finazzi, presidente dell’associazione Spazio Blu e portavoce del Comitato lombardo “Uniti per l’autismo“, quali sono le cause dell’aumento delle diagnosi di autismo registrato negli ultimi anni?

"Le ragioni di questo aumento sono più d’una. In parte si deve ad un’accresciuta capacità diagnostica: sempre più spesso, al diciottesimo mese di vita, nell’ambito del bilancio di salute, si ricorre ad uno screening che può evidenziare la presenza di un disturbo dello spettro autistico. Per un’altra parte si tratta, invece, di diagnosi tardive, quindi di casi che non sono stati individuati nei primi anni di vita della persona ma solo successivamente: questo riguarda soprattutto gli autistici ad alto funzionamento e le donne. Non è un caso che il rapporto tra maschi e femmine, nell’autismo, sia di 4 a uno. Infine è il risultato di un sistema di ricerca decisamente obsoleto".

Partiamo dai casi che restano sommersi per anni. Perché accade, esattamente?

"L’eziologia dell’autismo è complessa perché è data dall’interazione tra geni e ambiente. Sia gli autistici ad alto funzionamento sia le bambine con disturbo dello spettro autistico riescono ad interagire meglio con l’ambiente ed è quindi più difficile codificare la loro reale condizione. I primi ci riescono perché in loro il disturbo dello spettro autistico è più lieve. Le femmine, invece, hanno una maggiore capacità di attivare dinamiche di emulazione e adattamento che consentono loro di mimetizzarsi nel contesto nel quale sono inserite e di nascondere, così, la propria condizione reale. In diversi casi questa capacità, poi, la si paga cara perché impedisce di focalizzarsi su se stessi, di prendere contatto con se stessi e di avere una visione il più possibile fedele di se stessi".

Perché ritiene obsoleto il modo nel quale si fa ricerca sull’autismo in Italia?

"Perché per 20 anni si è seguita la strada sbagliata, si è andati alla ricerca del gene dell’autismo senza che si riuscisse a far emergere biomarcatori per la diagnosi. È un sistema obsoleto perché è ancora basato sulle teorie dello psicanalista Bruno Bettelheim, quelle delle madre-frigorifero e della fortezza vuota, quelle risalenti agli anni ’60 che negli Stati Uniti sono state abbandonate da decenni. Questo è un grosso problema. Il nostro Comitato ha proposto alla Regione di destinare le risorse del Fondo Autismo Nazionale a nuovi ambiti di ricerca, a partire dalla necessità di indagare su biomarcatori e sulla stretta interrelazione tra corpo e mente. Anche per la necessità di rispondere ai bisogni di salute ancora oggi ignorati dei nostri figli e figlie. Ma non abbiamo ricevuto risposta. Occorrono uno sforzo di pensiero e uno sforzo di fondi, due aspetti correlati. Anche i servizi per i bambini e le famiglie sono fermi a 20 anni fa".

Eppure a livello regionale è stato istituito un Piano autismo, sono stati attivati voucher sociosanitari e voucher autismo.

"Si tratta di singoli pezzi che non fanno un puzzle perché manca un approccio aggiornato ed una visione complessiva. Qualche esempio: le ore di assistenza e attività previste dai voucher autismo si riducono dal decimo anno di età in avanti, si riducono proprio nel momento cruciale della preadolescenza, in barba a quell’approccio bio-psico-sociale all’autismo prescritto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità senza che trovi, però, attuazione concreta. Altro esempio: il supporto della neuropsichiatria infantile viene meno al compimento dei 18 anni, poi c’è il vuoto. Ancora oggi non c’è un codice sanitario riconosciuto per l’autismo in età adulta. Senza contare, infine, il grave problema della mancanza di personale educativo, che vanifica la possibilità stessa di utilizzare i voucher e contribuisce a creare liste d’attesa di 2 anni prima che si possa accedere ai percorsi di cura. Un sistema che finisce per alimentare gli operatori privati, senza che bastino".

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