
Giacomo, 25 anni, ha un disturbo borderline: deve ricevere cure in comunità, la soluzione non è la Rems
di Alessandra Zanardi
SAN DONATO MILANESE
"Mai più casi come quello di Giacomo Trimarco, suicida in carcere. Anche le persone con quadri psichici complessi hanno il diritto di ricevere cure adeguate". Maria Corinna Gorlani, milanese, è la mamma di Giacomo, un 25enne con disturbo borderline che lo porta a commettere reati, attualmente detenuto nel carcere di Pavia. Gorlani è anche vicepresidente di “Famiglie in rete“, associazione che promuove i diritti dei malati psichiatrici e delle loro famiglie. Un sottogruppo dell’associazione, “Ci siamo anche noi“, si concentra sui borderline a basso funzionamento. Persone che, a causa del loro disturbo, hanno difficoltà a gestire lavoro, studio, relazioni sociali e percorsi di recupero, "ma che comunque meritano attenzione e aiuto". Maria racconta la storia di suo figlio, che per altro, durante una prima detenzione al Beccaria aveva conosciuto il suo omonimo Giacomo Trimarco, un altro detenuto con disturbo di personalità, poi suicida a San Vittore nel 2022. Quando ha deciso di togliersi la vita, Trimarco aveva 21 anni ed era in attesa del trasferimento in una Rems, una struttura sanitaria per autori di reato affetti da disturbi mentali. Il figlio di Maria Gorlani invece è in attesa del trasferimento in una comunità terapeutica specializzata. Nel frattempo, però, la famiglia teme che la sua fragilità possa peggiorare.
Come vi siete accorti del problema di Giacomo?
"Le prime manifestazioni del disturbo di personalità si sono avute già durante l’infanzia, ma è con l’adolescenza che i problemi si sono accentuati, tant’è che Giacomo non è riuscito a finire la terza media e ha dovuto sostenere l’esame da privatista. A 13 anni era un campione di basket, ma già allora i suoi avversari approfittavano del suo temperamento per provocarlo e farlo ammonire. Ha dovuto mollare".
Poi cos’è successo?
"A 17 anni è arrivata una condanna per maltrattamenti in famiglia. Non siamo stati noi a denunciarlo, ma i vicini di casa e anche alcuni passanti, dopo aver assistito alle sue crisi di rabbia. Giacomo è perciò finito in comunità. In una prima struttura veniva pesantemente sedato, faticava persino a parlare. Nella seconda e nella terza è stato più volte denunciato per i suoi comportamenti. Così, per lui si sono aperte le porte del carcere minorile. Da allora è iniziato un percorso tra i più sofferti, dentro e fuori di cella. Attualmente, dopo un periodo a Bollate, è detenuto a Pavia. È in attesa del trasferimento in una comunità terapeutica, ma intanto la sua situazione è peggiorata. Compie gesti di autolesionismo, ha il petto e le braccia piene di cicatrici. Episodi raccontati anche in due libri che lui stesso ha scritto".
Veniamo alle Rems. Cosa pensa del fatto che i posti sono limitati e alcune richieste d’inserimento restano inevase?
"Le Rems erano nate come luoghi di transito, nei quali perfezionare la diagnosi e impostare un progetto terapeutico da completare poi sul territorio, ad esempio nei Cps. Erano dimensionate per una permanenza media di sei mesi, mentre ora le persone ci restano anni. La soluzione non è aumentare il numero di posti in queste strutture, bensì gli sbocchi sul territorio".
Un altro tema è il sovraffollamento delle carceri.
"Non solo. Mancano agenti di polizia penitenziaria, medici, psichiatri, psicologi ed educatori. I contatti col mondo esterno sono limitati: 6 ore di colloquio al mese, una telefonata di dieci minuti alla settimana. E le condizioni igienico-sanitarie sono al limite, si pensi solo al caldo".