
Gian Marco Mazzocchi
Milano, 17 novembre 2019 - Bambini incapaci di stare seduti al loro banco. «Terremoti» che possono arrivare a spaventare i loro coetanei per i loro problemi comportamentali. Possono essere affetti da un disturbo di cui negli ultimi tempi si fa un gran parlare: l’Adhd, acronimo in inglese di Attention Deficit and Hyperactivity Disorder. «La sindrome da deficit di attenzione e iperattività non dipende da una cattiva educazione. E neppure dall’uso dello smartphone», sottolinea Gian Marco Marzocchi, professore associato in Psicologia dello sviluppo e Psicologia dell’educazione all’università di Milano Bicocca: studia da vent’anni questo fenomeno che interessa un bambino su venti.
Chi sono i bambini iperattivi? «Sono quelli caratterizzati da una difficoltà di mantenere l’attenzione e il controllo comportamentale. Si può parlare di Adhd solo in caso di diagnosi che può essere eseguita solo da un neuropsichiatra infantile o uno psicologo esperto in psicologia infantile, non dal pediatra».
Qual è l’incidenza di questo disturbo? «I dati sono quelli diffusi dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. La percentuale si aggira fra il 3% e 5% della popolazione pediatrica ed è un disturbo che si verifica in tutto il mondo. La stima è di 300mila 400mila piccoli in Italia e 50mila in Lombardia. Un terzo sono femmine».
C’è un aumento dell’incidenza per l’uso degli strumenti digitali? «In realtà l’incidenza non è aumentata negli ultimi anni. Ma non sono mancati dei servizi, come quello recente su Striscia la Notizia, che associano i bambini con Adhd alla sovraesposizione da smartphone e videogiochi. È vero che questi soggetti usano più spesso i cellulari ma è la conseguenza del disturbo non la causa. Il cervello di questi bambini è leggermente sottoattivato e per sentirsi più attivati cercano stimoli che li possano gratificare. Hanno però difficoltà poi a regolare qualcosa che a loro piace. L’Adhd però non è causato da stimoli inappropriati. Se fosse vero, basterebbe modificare certe abitudini per far sparire il disturbo».
Allora la causa qual è? «Per il 70% questa sindrome ha una base neurobiologica. Può essere più o meno grave a seconda degli interventi psicologici che vengono messi in campo».
Inclusi anche gli psicofarmaci? «Si è scatenata una polemica strumentale. In Italia la percentuale di utilizzo è bassissima, meno dell’1% dei bambini diagnosticati, circa 3mila. Il principio attivo è un derivato dell’anfetamina che riduce la componente di iperattività. La prescrizione del farmaco e il controllo spetta a un centro di neuropsichiatria accreditato all’istituto superiore di sanità. Il bambino deve essere inserito in un programma di terapia multimodale che coinvolge anche genitori e insegnanti».
Qual è la terapia principale? «Training che durano almeno quattro o cinque mesi, tendenzialmente dopo l’orario scolastico. Si lavora con il bambino per insegnargli strategie per il controllo dell’attenzione e il miglioramento della memoria. La stimolazione cognitiva, con attività ludiche e divertenti come un gioco di carte, permette di attivare il cervello in modo che sia più funzionale alle richieste scolastiche. Se si lavora nella fascia fra 6 e 12 anni le probabilità di miglioramento sono incoraggianti».
Cosa pensa della decisione dei genitori di una primaria di Cardano al Campo di tenere a casa i figli da scuola per la difficile convivenza con un compagno «intemperante»? «Mi auguro che la scelta sia stata l’ultima e disperata extrema ratio, dopo aver provato tutti i tentativi: aver parlato con gli insegnanti, i rappresentanti dei genitori e soprattutto il dirigente scolastico, responsabile dell’inclusione degli alunni».