
Pierangelo Tronconi
Una vita dedicata all’arte e all’innovazione nel mondo della grafica e della bellezza. Si è spento a cento anni Pierangelo Tronconi, pittore, grafico, illustratore e rappresentante della nuova figurazione, eminente personaggio del panorama culturale italiano. I funerali si svolgeranno martedì 31 alle 10, nella chiesa di San Bovio a Peschiera Borromeo. Lascia la moglie Piera, sposata nel 1949, le figlie Elisabetta e Antonella e una nipote, Chiara Gatti, già assessore comunale. È suo, nel momento del lutto, un ricordo più intimo nel giorno del cordoglio: "Un uomo che aveva consacrato la sua vita all’arte e alla cultura. E che non ha smesso di coltivare la passione per la lettura, la filosofia, la teologia".
Sul sito dell’artista parole manifesto: "Qui un compendio delle attività espressive, quali le arti figurative, la grafica nonché la scrittura, a cui mi sono dedicato “pour tenter de vivre” come avrebbe detto Paul Valery".
Tronconi era nato il 23 marzo 1921 a Rovescala, nell’Oltrepò Pavese. Qualche cenno biografico. I primi ‘rivoluzionari’ insegnamenti furono quelli di Oswaldo Bot, pittore futurista. Poi lo studio del pittore milanese Uberto Rognoni. Nell’immediato Dopoguerra l’incontro con gli artisti animatori delle riviste milanesi “Numero” e “Il 45”. La collaborazione con la rivista “Uomo”, diretta da Dino del Bo, e nei primi anni Cinquanta l’ingresso come graphic-designer e illustratore prima all’agenzia internazionale di pubblicità Cpv, poi, dal 1957, alla Arnoldo Mondatori Editore.
Fu fondamentale il ruolo di Tronconi nella “ricostruzione” del periodico femminile italiano, in particolare di Grazia, di cui avrebbe per anni realizzato le copertine. Dagli anni Sessanta la fama internazionale, le esposizioni, i premi e i riconoscimenti.
"Amava la sua terra – ricorda la nipote – e non mancava di tornare a Rovescala, dove era nato".
Importante anche l’esperienza della guerra: "Scampò due volte ai tedeschi. E ce lo ha sempre raccontato". Amava raccontare, l’artista, un paio di momenti in cui era mancato proprio un soffio. "La prima dopo l’8 settembre – ricorda ancora la nipote –. Mio nonno era ufficiale ad Antibes, era salito con alcuni commilitoni su un treno, per tornare a casa. Ebbe come un’illuminazione, si tolse la divisa e la gettò, e andò a sedere in prima classe. Sul treno salirono i tedeschi. Lui si salvò, i compagni furono arrestati". Un arresto sarebbe arrivato un anno dopo. "Furono fermati per strada e arrestati in due, e portati a Castel San Giovanni. Dovevano essere fucilati. Li fece rilasciare il prete, che era stato chiamato per dar loro l’estrema unzione. Disse ai tedeschi che erano due bravi ragazzi".