Milano – Ci siamo incontrati a New York, a Williamsburg per la precisione, il quartiere giovane e creativo di Brooklyn, per raccontarci una storia iniziata a Milano e finita (nel migliore dei modi) nel “Salotto” della città in cui Gabriele Rossi e Emiliano Ponzi hanno trovato l’America. Non da soli ovviamente, perché Rossi e Ponzi sono due dei membri di un gruppo, il Salotto appunto, che comprende altri professionisti, tra art directors, illustratori, grafici, videomaker italiani. E la storia ce la raccontano loro.
G.R. “Ho una società che a Milano dà lavoro 30 persone, la sede è a NoLo, si chiama Accurat ed è all’interno di un ex opificio ottocentesco. Ho cofondato la società nel 2011, una dei soci ha avuto possibilità di fare il dottorato qui a New York, quindi ci siamo trasferiti, all’inizio anche per curiosità. Poi ci si è aperto un mondo. Ci occupiamo principalmente di rendere fruibili i dati attraverso design, animazioni e grafica per renderli intuitivi e leggibili. Facciamo anche software di business intelligence, le grosse aziende prendono decisioni anche in base alla lettura dei dati, immaginando possibili scenari”.
E.P. “Ho vissuto a Milano fino a qualche anno fa. Sono illustratore e quando ho cominciato a lavorare per Le Monde, Internazionale, New York Times e New Yorker stavo a New York per tre, quattro mesi all’anno. Ogni volta che venivo qui a New York trovavo un terreno molto fertile, cioè riuscivo a mettere in atto progetti che in mercati più piccoli non riuscivo a realizzare. Così ho preso la decisione di trasferirmi. L’illustrazione rimane la mia formazione e il mio primo amore, sto facendo un progetto molto grande per il New Yorker di corredo a una inchiesta di giornalismo investigativo con contenuti multimediali e video. La seconda anima è l’aspetto installativo: ho una collettiva che apre a Shanghai, ho progettato una stanza immersiva con luci temporizzate in partnership con l’Istituto italiano di cultura di Shanghai. E la terza anima è quella della pittura sto facendo un lavoro con l’editore Corraini, membro del Salotto”.
Come è nata l’idea di lavorare insieme nel Salotto? (Oltre ad Accurat e Ponzi, si è trasferita nel “Salotto” anche Design Group Italia)
G.R e E.P.: “L’idea è nata in maniera abbastanza estemporanea durante il Covid perché siamo rimasti tutti senza ufficio e senza posti in cui andare. Abbiamo preso insieme alle nostre famiglie una grande casa nella valle dell’Hudson e dopo due settimane insieme a lavorare nello stesso posto ci eravamo trovati molto bene. Due di noi abitavano sopra un negozio sfitto e quando siamo tornati a New York, dopo la pandemia, ci è venuta l’idea di replicare questa esperienza. Abbiamo preso in affitto il negozio, l’abbiamo reso una sorta di coworking tra amici. Essendo tutti collegati sulla scena del design e dell’arte a New York, nel gruppo c’è anche un regista e un videomaker, quando facevamo feste in ufficio ci siamo resi conto che comunque si stava creando una “community design”. Quando il proprietario del palazzo ci ha dato lo sfratto ci siamo detti “coltiviamo questa community” e ci siamo presi uno spazio più grande, qui a Williamsburg, poi da cosa è nata cosa”.
Che cosa proponete nel Salotto?
G.R e E.P.: “Presentiamo libri, convegni, lezioni, abbiamo unito il mondo del design, della cultura, degli eventi, della musica, dell’arte, una sorta di approdo a New York per la cultura italiana e in generale eventi legati anche alla nostra attività. Questa opportunità del Salotto è di più della sola somma dei singoli, è più facile lavorare se il tuo compagno di banco ha una professionalità altissima e affine alla tua”.
Differenza tra lavorare a Milano e a New York?
G.R. “Sono due mondi diversi, qui l’attitudine che hanno le persone che lavorano in vari settori rende tutto molto più facile. In America si fanno affari, c’è una mentalità che rende facili le transazioni in generale, si tende a fidarsi di più di quello che non si conosce, in Italia c’è più im
mobilismo e diffidenza se non conosci. Le persone nel luogo di lavoro vengono valutate bene per quanto caute sono; qui, invece, si viene valutati bene per quanti rischi si è disposti e prendersi. Qui i manager dicono: “Ci sono persone nuove? Vediamo cosa sanno fare”. Il lavoro che ho trovato in Italia l’ho trovato perché qui si sono fidati di noi. Le aziende italiane ci hanno dato fiducia quando hanno visto che abbiamo lavorato con Google, le Nazioni Unite, JpMorgan. L’altro lato della medaglia è che qui il mercato è spietato: con la facilità con cui entri qualcun altro ti toglie il posto. Quindi è un mercato che ti tiene sulle spine, bisogna sempre offrire ottima qualità e sapersi rinnovare perché lavori con soggetti che hanno dimensione e massa critica per influire sulla cultura globale. Io amo molto Milano, mi piace tornarci, ma amo molto la dinamicità di New York e penso che se non avessimo aperto qua la società in Italia l’avrei forse già chiusa (ride)”.
E.P.“Quello che ha detto Gabriele è tutto vero, lui ha fatto lo yin, io faccio lo yang. Vivendo qui la cosa che si capisce subito è che c’è un patto che tu fai: hai accesso a tante cose, ma paghi un prezzo altissimo - non solo economico - per vivere a New York, ma il sottotesto non si vede perché l’America, dopo la chiesa cattolica, è la più grande agenzia di pubblicità di se stessa mondiale mai esistita. C’è un patto “morale” che è quello di sapere che vivi in una società che nelle sue fondamenta è impostata sul generare denaro e sullo spendere quel denaro, quindi questa società americana è impostata per far star bene la gente che sta già bene. Quindi stare qui è un gioco e devi stare dentro le regole. Se arrivi lanciato, la società americana ti accoglie e ti aiuta a lanciarti, ma nell’aiuto è comunque spietata”.