Moro e Faranda, vittima e carnefice insieme in un incontro commovente

La figlia di Moro e l'ex brigatista hanno partecipato a un'iniziativa al Verri di LAURA DE BENEDETTI

Da sinistra, Agnese Moro e Adriana Faranda

Da sinistra, Agnese Moro e Adriana Faranda

Lodi, 2 aprile 2016 - "Non sarà la storia a sanare le mie ferite, come non lo ha fatto la giustizia penale. Nell'omicidio di mio padre non c'è niente di misterioso: Andreotti e Cossiga non hanno fatto niente per salvarlo. In quei 55 giorni le persone, per ciò che è stato detto loro, si sono schierate contro la trattativa con le Br. E' un fatto che si ripete ogni volta che guardiamo morire un bambino nel Mediterraneo". Molti gli applausi, venerdì sera in una sala del Verri affollatissima, per Agnese Moro, figlia dello statista Aldo, rapito e poi ucciso dalle Brigate Rosse nel 1978, seduta accanto all'ex brigatista Adriana Faranda, che fece parte del commando di via Fani, per presentare il percorso di 'giustizia riparativa' tra vittime e responsabili della lotta armata avviato nel 2007 e che nel 2015 è confluito nel 'Libro dell'incontro', curato da Claudia Mazzuccato, esperta del settore, Guido Bertagna, gesuita, e Adolfo Ceretti, crimonologo, tutti e tre presenti alla serata organizzata dall'associazione Los Carcere.

"Essere vittima è consolante perché hai un ruolo nel mondo ma sei anche sola, perché sei un simbolo - ha detto nel suo racconto - . Dentro di me c'è un urlo di angoscia, come quello dipinto da Munch, con sopra un sasso che non mi permette di tirarlo fuori. La fortuna è che mi è rimasta la voglia di vivere anche se il dolore si allunga, come un elastico, e ogni tanto, improvvisamente, mi riporta indietro a quei 55 giorni. Ma, nella mia mente popolata di mostri, mi ha spiazzata scoprire, tramite il percorso di 'giustizia riparativa', di avere di fronte un essere umano e che la sofferenza non è appannaggio solo di noi vittime. Ci sono parole che fanno malissimo. Ho imparato l'importanza del tempo dei verbi: ciò che è stato e ciò che è. Il perdono? Se perdono faccio un regalo a me stessa, perché vado avanti con la mia vita; non c'entra con l'altro, non va annunciato perché può creare squilibri, incidere sulle pene da scontare".

"Se Moro fosse stato mio padre, sarei impazzita - ha detto Faranda -. Ma nella macchina da guerra i processi di empatia non hanno spazio. Eppure già allora mi resi conto che con la scelta estrema della lotta armata recidevamo i legami di solidarietà che avevamo con parte della società, portando dolore e scompiglio, e mi sono battuta perché non venisse ucciso. Uccidendo il papà di Agnese abbiamo inciso anche nell'andamento democratico del Paese: fu messo a tacere il dissenso sociale".

Faranda ha sottolineato come i 15 anni di carcere, "non tantissimi per le responsabilità che ho avuto", li ha accettati perché sapeva che stava compiendo un reato, ma "il carcere è un luogo di deresponsabilizzazione, di attesa. Solo dopo ho cercato le persone a cui avevo fatto del male: avevo bisogno di sentirmi chiedere perché? come hai potuto? E scoprire che c'è sempre la possibilità di aprirsi all'altro". "Lavoriamo sui traumi collettivi che, come per la lotta armata, si sviluppano per cerchi concentrici, dai familiari all'intera società: la verità che, durante il percorso, è emersa dai racconti di singoli episodi è curativa, oltre che storica" - ha affermato Ceretti, ricordando che la giustizia riparativa è stata usata anche in Sud Africa nel dopo Apartheid.

"Verità è ciò che ha chiesto, pochi giorni fa, anche la mamma di Giulio Regeni - ha sottolineato Mazzucato -; è importantissima per avere fiducia nel prossimo, generare speranza. La coercizione può servire: alcuni terroristi hanno detto 'meno male che mi hanno arrestato, così ho meno morti sulla coscienza'; ma non si può chiamare giustizia ciò che è male, il dolore inflitto ad altri, la costruzioni di muri. Se si restituisce colpo su colpo, la violenza raddoppia anziché cancellarsi; si semplifica ciò che invece è complesso, come sta avvenendo oggi con le stragi. Onu e Ue cominciano a capire che la società civile deve costruire relazioni sociali capaci di far sì che una persona decida di non uccidere". Infine ha ricordato che "Moro, quando aveva 27 anni, ha scritto in particolare la norma della Costituzione che ha poi permesso il reintegro in società di Faranda".